Una scia di sangue frutto di una vera e propria “guerra”, come la definì nel novembre scorso il procuratore capo di Vigevano Alfonso Lauro, che ha lasciato sul campo sette vittime tra i centri di Vigevano e Abbiategrasso.
Una guerra combattuta non lontano dai riflettori e non lontano dalla città. Il 21 maggio 2011, in un bar della Sforzesca (frazione di Vigevano) veniva freddato in pieno giorno Pellum Tartaraj, albanese di 33 anni. Otto mesi più tardi al bancone del locale Sayonara, sul lungo Ticino, due uomini con una calibro 7.65 uccidevano un altro albanese, Edmond Shtjefni, davanti a quasi cinquecento persone. Il 17 marzo la guerra tra bande lasciava sul campo altre due vittime, il 36enne Almir Gajtani e il 24enne Martin Turka, freddati a colpi di Kalashnikov nel parcheggio della Clinicia Beato Matteo di Vigevano alle nove di sera. Due mesi più tardi, il 17 maggio, in un fossato veniva rinvenuto il corpo della prostituta romena Amalia Murgu. Aveva 25 anni. Ma non è finita, perché lo scorso novembre sono altri due albanesi a finire uccisi, questa volta ad Abbiategrasso, provincia di Milano, ad appena 10 chilometri da Vigevano. Erano zio e nipote, un duplice omicidio che gli investigatori riconducono a un regolamento di conti nell’ambito del piccolo spaccio di cocaina.
Dalla serie di questi episodi sono partite le indagini nell’ambito dell’operazione “Alba Nostra”, portati a termine questa mattina all’alba da parte del nucleo dei Carabinieri di Vigevano, coordinati dalla locale procura della Repubblica. Sono state emesse 40 ordinanze di custodia cautelare, di cui ventiquattro in carcere, sei domiciliari e dieci mandati di cattura europei eseguiti in Romania.
Per gli omicidi di Vigevano, riconducibili al racket della prostituzione, sono stati arrestati e condannati sei albanesi e ci sono ancora indagini in corso. L’operazione di oggi ha confermato l’ambito in cui quegli omicidi sono maturati, vedendo finire in manette il fratello di uno dei coinvolti nella prima esecuzione del maggio 2011, che secondo le indagini avrebbe ricoperto un ruolo apicale nell’organizzazione portata alla luce. Organizzazione, fanno sapere gli inquirenti, colpita dall’omicidio della prostituta Amalia Murgu, e che potrebbe quindi preludere anche alla prossima individuazione di una banda rivale.
Una organizzazione criminale, quella portata alla luce dalle Forze dell’Ordine, che fa emergere nuove sinergie e scenari criminali in evoluzione, dovute anche ai ‘vuoti’ lasciati dalle mafie italiane, che in particolare al nord puntano su settori di business più alti come l’impresa e anche la finanza. Basti guardare la composizione dell’organizzazione: 18 romeni, otto albanesi, tre egiziani e 11 italiani, che facevano fruttare il giro di prostituzione nella zona della Lomellina in un ‘fatturato’ totale di circa cinque milioni di euro in un anno. Le ipotesi accusatorie della procura puntano infatti al riconoscimento di una associazione per delinquere transnazionale finalizzata al reclutamento, agevolazione, induzione e favoreggiamento della prostituzione di donne di nazionalità straniera.
Fasi, quelle che vanno dal reclutamento alla logistica, gestite dalle varie etnie in un vero sistema a compartimenti stagni, ma che poi arrivavano al risultato finale con una vera e propria divisione degli utili. «Una associazione a delinquere composta da altre associazioni a delinquere», ha sintetizzato Gennaro Cassese, comandante della compagnia dei Carabinieri di Vigevano. Non è un caso infatti che siano utilizzate nell’indagine le terminologie come “il clan romeno”, “il clan albanese”, “il clan rom” e “il clan africano”.
Dalla Romania partiva infatti la fase di reclutamento delle ragazze e la prima gestione logistica per gli spostamenti verso l’Italia, oltre alla gestione dell’intero sistema. Gli albanesi avevano invece una autentica ‘mappatura’ delle zone della prostituzione, come rotonde, strade statali e provinciali, con abbinato una sorta di tariffario ‘di affitto’ per le consorterie romene che dovevano piazzare le prostitute lungo i tragitti. I nordafricani fungevano invece da ‘intermediari immobiliari’, mettendo a disposizione gli alloggi agli aguzzini che convivevano con le stesse prostitute. Alla base della piramide vi erano poi gli undici italiani che svolgevano compiti di manovalanza, come il trasporto delle ragazze dagli alloggi ai luoghi di lavoro.
Dall’ottobre 2011, però, gli uomini del comandante della compagnia dei Carabinieri di Vigevano si mettono sulle tracce dell’organizzazione. E con servizi di osservazione e oltre un milione e mezzo di intercettazioni telefoniche analizzate e tradotte dall’albanese, romeno, arabo e dalla lingua rom, si è arrivati ai quaranta fermi di oggi. Determinante è stata la collaborazione della procura con Eurojust, la Direzione nazionale antimafia e l’Interpol.
L’evoluzione criminale delle mafie tradizionali italiane ha lasciato dei ‘vuoti’, che oggi sono riempiti da organizzazioni come quella scoperta in ‘Alba Nostra’: «Quello del giro della prostituzione e del piccolo spaccio – spiega il pm Mario Andrigo, che ha coordinato l’indagine – è uno spazio lasciato libero da organizzazioni come la ‘ndrangheta che si è in parte data a business di livello più alto. Qui – prosegue Andrigo – si inseriscono realtà come questa che si stanno consolidando». Sorprendente risulta essere infatti la marginalità del ruolo degli italiani all’interno dell’organizzazione.
Nell’ambito delle operazioni sono state sequestrate anche due strutture alberghiere di Gambolò e il circolo Sex Lady di Mortara. Particolare di non poco conto rimane sempre la complicità dei gestori delle strutture, che arrivano a dichiarare a verbale che «senza l’affitto delle camere ai clienti delle prostitute avremmo chiuso da tempo». Le indagini rilevano infatti come la maggior parte degli incassi delle strutture, di fatto un night club con camere, un Bed & Breakfast e un circolo di intrattenimento, derivassero proprio dalla frequentazione di prostitute e clienti. Era infatti pratica usuale che le stesse ragazze lasciassero un corrispettivo ai titolari delle strutture su quanto incassato dalle prestazioni sessuali.
«Non dimentichiamo – dice il procuratore capo di Vigevano Alfonso Lauro, nel corso della conferenza stampa tenutasi in mattinata nell’aula magna del tribunale di Vigevano – che questo è però uno spaccato della società: se c’è offerta, è perché c’è anche domanda. Per cui non si può solo pensare ai ‘mascalzoni’ che sfruttano le ragazze, ma occorre anche dare un occhio a chi queste ragazze le cerca e alimenta questo mercato illegale». Lauro non fa mancare anche una nota polemica riguardante il taglio dei tribunali sul territorio. Quello di Vigevano, insieme con la procura, è infatti finito nella tagliola della ‘spending review’ e verrà soppresso. «Un errore grave – specifica Lauro – sopprimere una sede come questa, nonostante sia sacrosanta una revisione delle circoscrizioni, ma con maggiore logica. Non è possibile – chiosa Lauro – che in Lombardia ci siano due corti d’appello, mentre in Sicilia ne sopravvivano ben cinque».
Un territorio, quello della Lomellina e in particolare di Vigevano, che ha visto prosperare fin dai primi anni Ottanta la nascente potenza della ‘ndrangheta in Lombardia, essendo culla di quel clan Valle divenuto poi potenza criminale grazie a estorsioni e videopoker, e che oggi deve fare i conti con una evoluzione criminale che supera i confini del Paese e mette sotto scacco una zona profondamente colpita dalla crisi e spesso disattenta ai fenomeni criminali. Basti pensare che in seguito al primo omicidio l’assessore alla sicurezza e vicesindaco Andrea Ceffa, oggi presente col sindaco Andrea Sala alla conferenza in Tribunale, ebbe a dire che «l’impressione è che, per le modalità con cui è avvenuto, questo grave episodio non abbia nulla a che vedere con la nostra città, non è una vicenda che possa sembrare collegabile alla realtà di Vigevano». Le indagini hanno invece portato al centro della questione proprio la città di Vigevano.
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