PECHINO – Shinzo Abe rivuole Okinawa. Ma non per restituirla ai suoi abitanti. È questo l’intento dichiarato, ma a voce non troppo alta, del primo ministro giapponese, l’uomo in grado di riportare ai vertici del paese-arcipelago il Partito liberaldemocratico del Giappone, dopo tre anni e mezzo passati all’opposizione.
Nello scorso fine settimana, Abe ha lanciato un segnale forte ai giapponesi di Okinawa: in visita nella prefettura di Fukushima, nel Nordest del Paese, ha annunciato la preparazione di una scansione temporale per il trasferimento di un totale di cinque basi e la restituzione a Tokyo dei terreni dati in concessione agli Stati Uniti per uso militare a sud di Kadena, la più grande base aerea Usa nella regione del Pacifico.
«Il governo – ha spiegato Abe ai giornalisti – ha intenzione di avviare trattative con la controparte americana per ridurre il carico che grava su Okinawa», ma «è necessario agire responsabilmente». Abe ha quindi invitato il governatore della prefettura meridionale a dare al più presto la sua disponibilità all’avvio dei lavori di smantellamento delle basi e per il reperimento di terreni adatti al loro ricollocamento nel territorio della prefettura, concedendo al governatore Nakaima Hirokazu 6-8 mesi di tempo per prendere una decisione.
Tokyo vuole riprendersi la terra, ma è ben lontana dal cacciare i soldati Usa dal suolo nazionale. Il dibattito si concentra in particolare sul futuro della controversa base di Futenma, che sorge nei pressi della città di Ginowan, da cui dovrebbero essere trasferiti circa 4mila soldati. Ancora il mese scorso, Abe aveva dichiarato pubblicamente che anche a causa delle recenti tensioni nell’area estremo-orientale, sarebbe «stato difficile» spostare la base fuori dalla prefettura di Okinawa.
Da lì gli americani non se ne andranno, almeno per ora. Il Giappone, che all’articolo 9 della costituzione post-bellica ha giurato di rinunciare alla guerra, dal 1945 infatti “appalta” la propria sicurezza nazionale agli Stati Uniti. E oggi, per Tokyo, al momento sono ancora troppi ancora i rischi legati alla sicurezza nazionale, con la contesa sulle isole Diaoyu o Senkaku che ancora provoca screzi con Pechino, e la minaccia mai passata dei missili a lunga gittata di Pyongyang.
Per questo ai 4mila di Futenma, il governo Abe vuole trovare un nuovo posto sempre nella prefettura di Okinawa, a Henoko, nella parte centro-settentrionale dell’isola di Okinawa. In scontro aperto con la popolazione locale che vorrebbe gli americani e i loro aerei lontani dalle loro città.
«La mia gente è molto arrabbiata», ha dichiarato venerdì scorso Nakaima. «Agli okinawani non è piaciuto che le procedure siano state gestite finora a livello del governo centrale, senza metterli a parte di nessuna decisione»: anche per questo il governatore ha chiesto due mesi in più per valutare la proposta del governo. Tuttavia il processo sembra irreversibile e a cose ormai fatte, «non possiamo dire no», ha concluso Nakaima.
In realtà, le speranze della popolazione erano ben riposte. Come infatti si legge in un comunicato del Comitato consultivo per la sicurezza nippo-americana del 27 aprile 2012 firmato dall’allora Segretario di Stato Hillary Clinton e dall’allora ministro degli Esteri giapponese Koichiro Genba, era chiaro l’impegno da parte Usa a «riequilibrare la [propria] presenza nella regione dell’Asia – Pacifico» e a fare di Guam il nuovo “hub” militare americano nell’area, restituendo quindi al Giappone «i terreni a sud della base aerea di Kadena, indipendentemente dal processo di trasferimento della base di Futenma».
Tuttavia l’accordo non è stato mai corredato da un preciso piano temporale. Secondo l’accordo, circa 9mila soldati sarebbero dovuti essere spostati lontano da Okinawa; anche per considerevoli problemi di “affollamento”: 14 basi militari, che occupano il 20 per cento della superficie totale dell’isola, circa 240 km quadrati, e il 40 per cento delle sue aree coltivabili.
Nonostante l’isola e il suo arcipelago siano oggi a tutti gli effetti sotto l’amministrazione di Tokyo, la presenza americana è ancora forte. In totale sarebbero circa 23 mila i soldati di stanza nell’isola, su un totale di oltre 47 mila distribuiti in tutto il paese-arcipelago. Il patto di sicurezza tra Giappone e Usa firmato a San Francisco nel 1951 parlava chiaro: a Tokyo la sovranità nazionale, a Washington una bastione per il mantenimento della “stabilità”nell’area del Pacifico.
È da qui infatti che pochi anni dopo sono partiti gli attacchi americani in Vietnam, ed è da qui che quasi certamente partirebbe un’offensiva Usa contro Pyongyang o, nel peggiore dei casi, contro Pechino.
Legata a doppio filo alle attività militari, per decenni l’economia di Okinawa è rimasta isolata dalla locomotiva giapponese che negli anni Sessanta ha reso il Paese del Sol Levante la seconda economia mondiale. Ancora oggi a Okinawa nonostante il turismo, che da solo vale il 10 per cento del Pil, la disoccupazione è al 7 per cento, il dato più alto su scala nazionale. E anche se gli abitanti locali da anni manifestano contro le basi Usa, queste continuano a dare lavoro a circa 4000 persone , contando per il 5 per cento circa del Pil dell’isola.
La ragione della rabbia non va però cercata solamente nella difficile situazione economica. Quanto più alla presenza straniera e alla difficoltà di portare le istanze locali all’attenzione di Tokyo.
Il contatto quotidiano con i soldati statunitensi avrà pure portato maggiore sicurezza sul piano della sicurezza nazionale, ma non ha di certo giovato alla popolazione locale. Tra il 1972, anno in cui Okinawa fu restituita alla sovranità di Tokyo, e il 2009, sono stati oltre 5,6mila i crimini imputati al personale militare Usa. A fare scalpore sono stati soprattutto gli stupri: il più grave nel 1995 ai danni di una ragazzina di 12 anni. L’ultimo a dicembre 2012, che ha portato alla condanna di un marine reo confesso a 4 anni di reclusione.
Poi ci sono le esercitazioni a poca distanza dalle abitazioni e il dispiego dei velivoli a decollo verticale MV-22, la cui sicurezza in volo non è ancora stata provata e che, anzi, lo stesso magazine Time, definì una “vergogna volante”. Per non parlare poi dell’aumento di incidenza di tumori e leucemie negli adulti e nei bambini, legato con ogni probabilità ai rifiuti tossici di origine militare – carburanti, olii, solventi, metalli pesanti – smaltiti in modo scorretto e su cui ancora non è stata fatta chiarezza.
Contro tutto questo gli okinawani lottano da anni, senza esito. Nella capitale giapponese arriva solo l’eco delle loro manifestazioni, perché nell’immaginario dei giapponesi delle isole principali, gli “yamatunchu” in lingua okinawana, Okinawa resta un paradiso tropicale da cartolina.
Sulla pelle degli abitanti di Okinawa si è giocata la storia post-bellica del Giappone. Anche per questo, vista da Okinawa, Tokyo è sempre più lontana, fisicamente (più di 1600 km la separano i dall’isola) quanto culturalmente.