Un deputato marocchino per le nuove generazioni

Le new entry in Parlamento

Nato in Marocco a Casablanca, cresciuto in Italia dall’età di 9 anni. Khalid Chaouki è il primo immigrato a entrare in Parlamento insieme a Cécile Kyenge, neodeputata Pd di origini congolesi. La sua è una delle tante famiglie arrivate in Italia negli anni ’90. Papà tappezziere a Palermo poi proprietario di un kepap a Reggio Emilia. Khalid lo raggiunge con la madre e il fratello nel ’92. Oggi, mentre lui si prepara a entrare in Parlamento, i genitori hanno fatto di nuovo le valigie e si sono trasferiti in Belgio, a Charleroi. Il loro kebap a Reggio Emilia non bastava più per vivere. Devono rincominciare da capo, ancora più a Nord.

Il primo impegno sociale di Khalid è nel 2001, subito dopo l’11 settembre, quando fonda i Giovani Musulmani d’Italia. È la sua risposta all’attacco alle torri gemelle: una condanna pubblica al fatto, ma anche l’apertura di un canale di dialogo con gli italiani, «in un momento in cui montava la paura verso la comunità musulmana». A 20 anni sposa Khalida (ha il suo stesso nome), conosciuta in una riunione milanese del movimento. Dopo aver vissuto a Napoli per specializzarsi in studi arabi all’Orientale e iniziare a lavorare come giornalista all’AnsaMed, Khalid si trasferisce a Roma, dove oggi vive con la moglie e i due figli, Adam, 3 anni, e Ilyas di 9 mesi.

Quando inizia la tua avventura nella politica italiana?
Nel 2005 mi ha convocato l’allora ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu. Mi chiese di fare parte della consulta per l’Islam italiano presso il Viminale. Un’iniziativa nata con lui e poi confermata da Amato. Bisognava trovare insieme una soluzione per aprire un dialogo tra italiani e musulmani. È stata la prima volta che ho iniziato a pensare alla necessità di superare il comunitarismo: noi musulmani non dovevamo essere una setta. È stato un passaggio cruciale.
«Non dobbiamo essere una realtà chiusa»: cosa significa oggi per te, da deputato?
Ci sono persone che dopo 20 anni si sentono ancora immigrati. Dobbiamo investire su legami che già ci sono, un contributo di legami tra stranieri e italianissimi che va riconosciuto, per creare unità.

Come creare questa unità di cui parli?
Cambiando il diritto di cittadinanza, rendendo più facile diventare italiani. Non c’è altra risposta. Perché solo questo cambierebbe il modo in cui gli stranieri si relazionano all’Italia, cancellerebbe quel rancore che molti provano, soprattutto le seconde generazioni. E poi bisogna invertire il modo in cui si parla di immigrazione sui mass media e in Parlamento. Basta propaganda leghista che produce paure senza soluzioni. Dobbiamo spiegare anche ai più anziani che gli immigrati sono nostri alleati, che sono utili per lo sviluppo economico dell’Italia, per ritrovare la voglia di futuro.

Mi fai un esempio concreto di cosa voglia dire vivere in Italia senza cittadinanza?
Ci sono tante piccole questioni burocratiche che alla lunga ti fanno venire rabbia, perché ti escludono. Ti racconto una cosa successa a me. A Napoli ho lavorato da giornalista per l’AnsaMed, il rame dell’Ansa che segue i fatti dei paesi affacciati sul Mediterraneo. Conoscevo l’arabo e mi occupavo di Nord Africa. Al termine dei due anni di praticantato dovevo sostenere l’esame per accedere all’ordine dei giornalisti professionisti. Ma avevo ottenuto la cittadinanza a metà praticantato. L’ordine non poteva riconoscermi i mesi di lavoro precedenti. Ho lottato per ottenerlo, facendo appello al buon senso.

È pronto questo paese per cambiare le regole sulla cittadinanza?
Oggi saremo tutti, italiani e stranieri, nuovi abitanti di una Italia che cambia, diversa da quella che è stata. Dobbiamo investire in una dimensione di cittadinanza più innovativa e moderna, una cosa oggi valida per tutti, anche per gli italiani di sangue. Dobbiamo, da politici, investire di più in una cittadinanza innovativa e moderna, per essere tutti più responsabili, e questo coinvolge tutti, anche gli “italiani di sangue”. Serve un nuovo senso di appartenenza. 

Per quali altre cose lotterai in Parlamento?
Per l’abrogazione della Bossi-Fini, la legge sull’immigrazione in vigore in questo momento. E poi lavorerò per avviare un dialogo coi paesi della sponda sud del Mediterraneo. Siamo troppo indietro con il dialogo con le nuove democrazie che stanno nascendo dopo la Primavera araba. Aspettano un segnale dalle generazioni più giovani. Aspettano un segnale da un’Italia che si riscatta dal bunga-bunga e dalle logiche affariste e recupera invece una storia di dialogo e fraternità.

Ti ritroverai faccia a faccia coi leghisti…
Cerco di non avere pregiudizi, anche se tra loro c’è chi ha teorizzato il “cattivismo” contro i profughi e i rifugiati. Hanno una responsabilità forte nell’idea che oggi gli italiani hanno dello straniero. Nell’ultima campagna elettorale però il tema dell’immigrazione è scemato. Voglio sperare che ci sia maggiore maturità nella società, che non ci sia più bisogno di un capro espiatorio per avere consenso. In parlamento proverò a fare come ho sempre fatto: anche nelle situazioni più complicate parto sempre dal tentativo di aprire un dialogo. Spero di trovarlo soprattutto coi più giovani in Parlamento.

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