Il gruppo Volkswagen ha annunciato un fatturato 2012 in aumento a 192,6 miliardi di euro contro i 159,3 miliardi del 2011. Il risultato tiene conto dell’apporto della controllata Porsche AG, consolidata dallo scorso agosto, e anticipa un utile di 21,7 miliardi di euro, un dividendo di 3,5 euro per azione (nel 2011 furono tre) e una produzione mondiale record che ha raggiunto i 9,27 milioni di veicoli, commerciali compresi, crescendo di circa un milione. Inoltre, è stato deliberato un premio di produzione di 7.200 euro lordi per ciascuno dei dipendenti che lavorano nelle fabbriche tedesche.
Anche se il 1° marzo l’annuncio dei risultati è stato accompagnato da un calo del titolo Volkswagen AG di oltre il 2% in una borsa che se li aspettava ancora migliori e teme per quelli futuri, si tratta in ogni caso di numeri da primato: in Germania, Volkswagen è l’azienda con il maggior fatturato e il miglior utile di sempre. Ma oltre che da primato, si tratta di numeri quasi da fantascienza, se raffrontati a quelli di altri costruttori che annaspano nelle difficoltà in un mercato che in molti Paesi europei langue o accusa vistosi cali mentre in Italia sprofonda addirittura, con le nuove immatricolazioni andate giù il mese scorso del 17,2%, il peggior febbraio dal 1979.
Numeri da primato, dicevamo, ma che tutto sommato interessano più gli addetti ai lavori e gli azionisti. Il numero che invece lascia attonito il grande pubblico (soprattutto, forse, quello italiano) è quello dei 7.200 euro lordi di premio, il cosiddetto “produktivitätsbonus” per ciascuno dei circa 103mila impiegati e operai dei sei siti produttivi Vw in Germania, i cinque di Wolfsburg, Braunschweig, Hannover, Salzgitter ed Emden, tutti ubicati nel “land” della Bassa Sassonia, più quello di Kassel, in Assia. Il premio, che si aggiunge ai 7.500 euro già erogati l’anno scorso, porterà l’azienda a stanziare grosso modo qualcosa come 750 milioni di euro solo per ricompensare le maestranze tedesche che hanno contribuito alla salute dei conti.
Come si spiegano risultati così brillanti sia dal punto di vista commerciale e reddituale, sia da quello del trattamento economico dei lavoratori tedeschi, i quali beneficiano già di un salario che i loro colleghi italiani nemmeno si sognano? Ed è possibile, pur tenendo conto delle profonde differenze tra le due aziende, tentare un paragone tra le strategie di Volkswagen e quelle di Fiat? Una premessa: per far luce su entrambi gli aspetti e azzardare un’analisi va dimenticata la troppo semplicistica affermazione, peraltro assai diffusa, secondo la quale “le Volkswagen sono auto che piacciono molto, mentre le Fiat piacciono poco”. C’è ben altro e ben di più. Intanto, può essere utile una panoramica sulle attività dei due gruppi nei mercati più importanti e sui rispettivi punti di forza e di debolezza.
C’è poco da fare: dal quartier generale di Wolfsburg, la corazzata automobilistica tedesca polverizza un record dopo l’altro. Nel vecchio continente l’analisi dei numeri lascia sgomenti e fa apparire quasi come una disfatta quelli di tutti i concorrenti. Nell’intero 2012, le immatricolazioni europee di vetture nuove degli otto marchi del gruppo (Audi, Bentley, Bugatti, Lamborghini, Porsche, Seat, Skoda e Volkswagen) sono state 2.977.416, quindi in leggero calo rispetto all’anno scorso (-1,6%), ma in un mercato complessivo che è sceso ben di più: -8,2%. La quota di mercato di Vw, però, è salita al 24,7% del totale, cioè 1,3 punti percentuali in più sul 2011.
Vw ha immatricolato oltre il doppio delle auto rispetto al più vicino inseguitore, il disastrato gruppo francese PSA (Peugeot-Citroën) che s’è fermato ad appena 1,4 milioni di esemplari, con una penetrazione in calo di 0,6 punti, dal 12,5 all’11,9%. Anche i primi numeri disponibili per il 2013, quelli di gennaio (il consolidato di febbraio verrà reso noto il prossimo 19 marzo) confermano il trend: Volkswagen ha guadagnato lo 0,9% rispetto al gennaio 2011, mentre PSA ha allargato il divario con un -1%.
Se abbandoniamo l’Europa e ci spostiamo negli altri Paesi, possiamo vedere che Volkswagen si è mossa in tempo per aggredirne i mercati ed è oggi ben posizionata per raggiungere i suoi obiettivi che, è bene sottolinearlo, prevedono il dominio globale e il superamento dei concorrenti Toyota e General Motors entro il 2018. In Cina, per esempio, il gruppo ha creato le joint venture produttive necessarie per operare con successo in un mercato che nel 2012 ha infranto il record dei 19 milioni di veicoli immatricolati, ma che tuttavia è gravato dai dazi sull’importazione che mettono fuori gioco i prezzi dei veicoli prodotti all’estero e i costruttori dei marchi generalisti che non si alleano con quelli locali.
La forza produttiva di Volkswagen in Cina conta su sette stabilimenti (a Shangai, Changchun, Chengdu, Dailan, Jlading, Loutang e Nanjig), più uno a Taipei, Taiwan. Sull’immeso mercato cinese, l’anno scorso Volkswagen è risultata al 1° posto con quasi 2,1 milioni di immatricolazioni e una quota di mercato passata al 14,9% dall’11,6% dell’anno precedente. Audi s’è piazzata al 13° posto con oltre 382mila auto (+24,9%) e una quota in netto miglioramento, dal 2,3 al 2,7%, mentre Skoda è passata da 220mila a 230 mila auto, perdendo però 0,1 punti di penetrazione.
Tra i primi 50 modelli di auto immatricolati all’ombra della Grande Muraglia ben 12 sono del gruppo (nove Volkswagen, due audi e uno Skoda). Fiat, invece, in passato semi-paralizzata nelle attività strategiche prima da una serie di affannosi avvicendamenti nella poltrona del comando culminati nella nomina ad amministratore delegato di Sergio Marchionne e poi afflitta da una fallimentare alleanza con il partner locale sbagliato (Nanjing), ha perso in Cina una gran quantità di tempo prezioso anche quando il Paese dava chiari segnali di uno sviluppo impetuoso.
Solo pochi mesi fa il primo stabilimento di Fiat, ora alleata con il nuovo partner GAC, è entrato in attività a Changsha per produrre la berlina media Viaggio, una rielaborazione della Dodge Dart, a sua volta derivata dal pianale dell’Alfa Romeo Giulietta, che sembra risultare gradita. A margine, va notato che la nomina di Paolo Fresco, chiamato da Gianni Agnelli nel 1998 a succedere a Cesare Romiti per traghettare la quasi fallita Fiat in un’alleanza con gli americani di General Motors, portò di fatto a modesti risultati che, a causa del naufragio dell’accordo, si possono riassumere nell’incasso di una penale di circa due miliardi di dollari a carico dell’ex-alleato recalcitrante e in una serie di sinergie nello sviluppo congiunto di motori e tecnologie.
Certo, l’avventura cinese non avrebbe potuto comunque svilupparsi senza un adeguato polmone finanziario che allora Fiat certo non aveva, col senno del poi si può affermare che corteggiare un partner inadatto come GM e non premere l’acceleratore in Cina lasciando prosperare i concorrenti non è stata una buona idea. Dei risultati della casa tedesca sul mercato cinese abbiamo già parlato; quanto a Buick e Chevrolet, due marchi del gruppo GM, si sono piazzati nel 2012 rispettivamente al 5° e al 6° posto con immatricolazioni cumulate per oltre 1,38 milioni di unità. Fiat, ovviamente, per colpa dei ritardi accumulati nello sviluppo della produzione locale, è quasi inesistente: non compare tra i primi venti costruttori, né alcuno dei suoi modelli è tra i primi 50 venduti.
In India, che è il 7° mercato del mondo con 2,67 milioni di auto nuove immatricolate delle quali circa il 42% se l’è accaparrato Maruti, le cose per Volkswagen vanno meno bene: è al 9° posto nella classifica 2012 (Audi è al 15%) ed è riuscita a piazzare solo quattro modelli nei primi 50 e non certo nelle prime posizioni: la Polo è 24a, la Vento 32a, la Skoda Rapid 33a e la Skoda Fabia 48a. Ma Fiat va peggio: è 13a, e la sua Punto è solo al 45mo posto. Eppure, in passato non è mancata la collaborazione con un partner locale, la Premier Automobiles, per la produzione su licenza, dal 1966 al 2000, di una replica della Fiat 1100D chiamata Padmini.
L’alleanza è certamente servita come testa di ponte utile ad acquisire vantaggi competitvi sulla concorrenza, ma probabilmente, sfruttando il vantaggio temporale di una presenza davvero di vecchia data sul territorio indiano, si sarebbe potuto fare (soldi permettendo) di più e di meglio. In Brasile, un mercato in rapido sviluppo che è il 4° al mondo per volumi con 3,63 milioni di immatricolazioni nel 2012, Fiat e Volkswagen lottano per la supremazia, che oggi è italiana. Il gruppo ha chiuso il 2012 con oltre 838mila immatricolazioni (la quota di mercato è del 23,1%) ed è riuscito a piazzare due modelli, la Uno e la Palio, al 2° e 3° posto nella Top Ten. Volkswagen è subito alle spalle con oltre 768mila immatricolazioni (21,1% di penetrazione) e la sua Gol è regina del podio con oltre 40mila unità di vantaggio sulla Fiat Uno. Audi è 21a e precede due marchi americani di Fiat, Jeep e Dodge, rispettivamente al 22° e 23° posto.
Anche la presenza italiana in Brasile è di lunga data, ma qui la strategia di Torino è stata lungimirante e ha ricevuto nuovo vigore da un recente, massiccio piano d’investimenti. Per ora Fiat si avvale del solo stabilimento di Betim, ma dal 2014 entrerà in funzione il mega-impianto di Goiana, sul litorale di Pernambuco, per il quale (insieme al centro logistico a ridosso del porto di Suape) l’investimento complessivo previsto supera i 3 miliardi di euro, con la produzione iniziale di Goiana che dovrebbe aggirarsi sui 250mila veicoli l’anno.
Volkswagen, però, che già oggi è il primo produttore di veicoli nel Paese e ha stabilito in Brasile e Argentina (come Fiat) le basi per esportare in tutta l’America Latina, pur essendo partita in ritardo rispetto al gruppo italiano nel potenziare gli investimenti, ne ha annunciati per 3,4 miliardi di euro nel periodo 2013-2016 e non fa mistero di puntare alla leadership. Sul mercato russo, che nel 2012 ha messo a segno il suo terzo anno consecutivo di crescita e un record di quasi 2,93 milioni di nuove immatricolazioni, Volkswagen è risultata al 5° posto con 164mila esemplari e una quota del 6,1%, mentre Audi è 20a con quasi 30.600 e una penetrazione leggermente in calo. La Vw più immatricolata è stata la Polo, al 12° posto nella “hit”.
I siti produttivi Volkswagen nell’area sono tre: quello di Kaluga, a 170 km da Mosca, aperto nel 2007 e dove vengono assemblati veicoli a marchio Volkswagen, Audi e Skoda, quello ucraino di Solomonovo (solo Skoda e poche Volkswagen), attivo già dal 2005, e infine quello di Astana, in Kazakhstan. Per il 2015 è previsto l’ampiamento della fabbrica di Kaluga per realizzare una linea di montaggio di motori (investimenti per 250 milioni di euro) e l’apertura di un nuovo impianto a Nizhnyi Novgogorod, nella Russia centrale, con una capacità di 110mila veicoli l’anno.
Per quanto riguarda Fiat, nonostante l’esordio dell’attività produttiva italiana in Russia risalga a quasi 50 anni fa (lo stabilimento di Togliattigrad per l’assemblaggio della famosa 124 “Zigulì” risale al 1966), la casa non è riuscita negli anni a capitalizzare a sufficienza tale vantaggio strategico e ha sprecato anche qui tempo e occasioni. Ritornerà a prudurre in Russia, probabilmente, solo nel 2014, anno della prevista entrata in funzione del nuovo stabilimento nei pressi di San Pietroburgo dove verrà avviata la produzione di 120mila esemplari l’anno di veicoli a marchio Jeep, ritenuti più adatti al mercato russo di quelli Fiat. Si tratta in ogni caso di piani ben diversi e drasticamente ridimensionati rispetto alla produzione dei 500mila veicoli annui (anche con marchio Fiat) che si prevedevano in base a un accordo (un altro matrimonio “sbagliato” dopo quelli con General Motors e con Nanjing Automobile in Cina) annunciato nel 2010 con il gruppo locale Sollers, naufragato un anno dopo con il voltafaccia di quest’ultimo e la sua quasi contemporanea decisione di allearsi con Ford.
Oggi la presenza Fiat sul mercato russo risente di questi antefatti ed è assai modesta: nessuno dei suoi marchi è presente tra i primi 25, né alcun suo modello, italiano o americano, compare nella classifica dei 25 più venduti. Negli Stati Uniti, mercato che ha chiuso il 2012 in recupero del 14% rispetto all’anno precedente con 13,132 milioni di immatricolazioni, Volkswagen è risultata 10ma con oltre 438mila targhe e una quota di mercato stabile del 3%, mentre Audi s’è piazzata al 22mo posto con più di 139mila macchine e l’1% circa. Porsche, invece, che negli States è molto gradita, occupa la 31a posizione con più di 35mila auto immatricolate.
Il gruppo Volkswagen possiede negli USA due stabilimenti, a New Stanton, nei pressi di Westmoreland (Penssylvania) e a Chattanooga (Tennessee). Fiat deve scontare oggi lunghi anni di assenza dal mercato nordamericano, una situazione originata da un’immagine compromessa in passato dalla qualità delle sue vetture, a torto o a ragione ritenuta non all’altezza delle altre concorrenti europee. Tuttavia, la 500, prodotta nello stabilimento messicano di Toluca, dopo qualche iniziale problema di commercializzazione sembra aver trovato la strada per affermarsi e grazie a lei il marchio Fiat s’è intrufolata nella classifica delle “Top 30” piazzandosi nel 2012 al 29° posto con quasi 44mila vetture.
Si attendono (non senza una certa curiosità) gli effetti dello sbarco di Alfa Romeo con la nuovissima berlinetta 4C, che oggi è considerata il simbolo di una certamente non facile rinascita del Biscione anche i terra yankee. I marchi americani del gruppo Fiat vanno piuttosto bene: il primo per volumi è Dodge, 8° con quasi 525mila immatricolazioni nel 2012 e una quota del 3,6%, seguito da Jeep al 9° (con oltre 474mila esemplari e il 3,3%). Al 13° troviamo Chrysler con 308mila (2,1%) e al 14° Ram, che un tempo era un semplice modello della gamma Dodge, ma che dal 2010 è divenuto un marchio a sé, con quota all’incirca pari a Chrysler e 301mila immatricolazioni.
E per finire, un focus sull’Italia, dove il gruppo Fiat, con i suoi marchi, ha archiviato il 2012 con immatricolazioni a quota 415.036 e una penetrazione del 29,58%. Il gruppo Volkswagen è risultato primo tra quelli esteri con 189.128 immatricolazioni (esclusi i numeri, del tutto trascurabili, di Bentley e Bugatti) e una penetrazione del 13,48%. A parte i marchi Fiat americani, Volkswagen è primo tra quelli esteri con 113.603 esemplari e una quota dell’8,1%.
Non si può negarlo: a parte le inarrivabili Bentley, Bugatti e Lamborghini, che fanno parte di un altro pianeta, molti ritengono le vetture a marchio Volkswagen e Audi (cioè, il grosso della produzione) affidabili, ben fatte, appetibili, tecnologicamente all’avanguardia e in grado di distinguersi dalle altre, nonché di aumentare lo “status” di chi le possiede. In altre parole, la percezione della loro immagine è positiva e contribuisce in parte a far vivere di luce riflessa, grazie ai pianali e alla componentistica largamente condivisi, anche i marchi meno blasonati del gruppo, Seat e Skoda.
Le vendite e la reputazione del gruppo, ovviamente del marchio Volkswagen in particolare, potrebbero poi ulteriormente consolidarsi grazie al recente arrivo della settima generazione della Golf, appena eletta Auto dell’anno 2013, un modello che da anni è primo nella classifica delle “Top Ten” europee. Wolfsburg ha saputo costruirsi la sua immagine caparbiamente e l’ha mantenuta negli anni a costo di sforzi colossali e certamente anche con sapiente lungimiranza, se si pensa che negli anni 70 Volkswagen boccheggiava all’ombra del celeberrimo ma ormai invecchiato “Maggiolino”, senza molto altro da offrire nella gamma, e Audi era poco più che un marchio esotico dallo scarso appeal. Tuttavia, è altrettanto innegabile che alcuni modelli usciti dalle fabbriche Volkswagen, senza addentraci troppo nel passato, si possono considerare dei flop commerciali o comunque auto dal successo probabilmente inferiore a quello che il management si aspettava.
Basta ricordare, per esempio, l’attuale citycar Volkswagen up! che finora, pur se declinata anche nelle versioni Seat e Skoda, non è riuscita a decollare davvero in un segmento di mercato dove il gruppo tedesco non ha mai brillato nonostante i tentativi (Vw Lupo, Seat Arosa e anche Volkswagen Fox) non siano mancati. Oppure la compatta Audi A1, il cui nome ricorda quello di un’altro insuccesso, l’innovativa ma costosa A2 in alluminio, tolta dal listino e lasciata senza eredi dopo solo sei anni di produzione. Senza contare la pretenziosa ma inutile ammiraglia Volkswagen Phaeton e le vendite in sensibile contrazione della spagnola Seat, dovute non solo alle gravi difficoltà del mercato iberico che ne assorbe una parte sensibile della produzione, ma anche al fatto che a Wolfsburg non sono mai riusciti a dare al marchio un’adeguata e razionale connotazione in grado di trasformarsi in un’immagine vincente da proporre al pubblico.
Tuttavia, alcuni dei segreti del successo della casa automobilistica consistono proprio nella diversificazione dei marchi, nel continuo aggiornamento dei modelli e nella presentazione di novità a raffica in grado di occupare ogni possibile nicchia e sotto-nicchia del mercato, anche a costo “inventarsela” per imporla, moltiplicando così le possibilità di qualche flop. Insomma, il poter disporre di una gamma di modelli sterminata è una specie di paracadute che permette di diluire l’impatto di qualche insuccesso.
Per inciso, va sottolineato che tale strategia, ovviamente perseguibile a patto di avere le casse gonfie di denaro da investire in nuovi modelli, è esattamente opposta a quella perseguita negli ultimi anni dal gruppo Fiat, dove l’ad Sergio Marchionne, impegnato nell’acquisizione di Chrysler, ha lesinato gli investimenti e ha asciato invecchiare inesorabilmente alcuni modelli (Fiat Punto), fermando la produzione di numerosi altri (Fiat Marea, Stilo Multiwagon, Multipla e Croma, Alfa Romeo 159, Lancia Delta) senza sostituirli. La cosa ha aggravato i problemi in Europa, dove il gruppo italiano nel 2012 è risultato 6° in classifica con immatricolazioni crollate del 16,1% rispetto al 2011.
Sostanzialmente, Volkswagen, così come a suo tempo ha fatto Toyota, è riuscita a mantenere il ciclo virtuoso costituito dallo sviluppo di prodotti che la clientela gradisce e che generano margini sufficienti da investire nello sviluppo di altri nuovi prodotti che avranno elevate probabilità di essere a loro volta graditi e di generare margini, e così via. Nel gruppo Fiat, invece, tale ciclo virtuoso ha subito la prima seria incrinatura a partire dal periodo 1995-1996, anno di presentazione della coppia Fiat Bravo-Brava e della Lancia K, alle quali non arrise la fortuna sperata. Gli insuccessi proseguirono poi con la Marea berlina (un po’ meglio la station), con la Stilo e, infine, con il costosissimo disastro della Lancia Thesis.
E con una gamma che certo non è vasta come quella di Volkswagen, gli insuccessi hanno pesato, innescando il contrario del circolo virtuoso, cioè quello vizioso, costituito dai flop che non generano sufficienti ritorni economici dai quali attingere per investire in nuovi modelli utili a risalire la china. Tra i fatti che possono essere inseriti tra quelli negativi per il gruppo Fiat, e che contribuiscono a deprimerne l’immagine complessiva, ci sono anche le attività di distruzione o di depauperamento dei marchi. Oltre a Innocenti e Autobianchi, spariti dalla scena dopo essere stati acquistati da Fiat proprio per eliminarli dal novero dei concorrenti, c’è da mettere in conto il triste destino di Lancia, che molti, compreso lo stesso Marchionne, considerano sul viale del tramonto dopo il non felice tentativo di rivitalizzarla grazie a modelli americani (Thema e Voyager) “rimarchiati” con il logo della casa.
Venendo alla questione del “pruduktivitätsbonus” tedesco, il cui importo supera la metà del salario d’ingresso al quale possono accedere molti giovani lavoratori italiani alla prima esperienza, va detto che il concetto non è affatto estraneo alle abitudini italiane, nemmeno a quelle già i vigore nel mondo dll’auto. Ferrari, per esempio, paga il premio da anni: per i risultati raggiunti nel 2011 era stato di 3.654 euro e per quelli del 2012 è stato annunciato un bonus di 4.500 euro, ai quali sarà forse aggiunta un’ulteriore gratifica di due o tre mensilità che porterà il regalo di Maranello a valori molto vicini a quelli elargiti da Wolfsburg.
Piuttosto, ci sarebbe da porre sotto esame l’intero modello di relazioni industriali messo in piedi da Volkswagen e dal sindacato dei metalmeccanici tedeschi IG Metall, modello che da tempo contribuisce, grazie a una sorta di pace sociale perseguita da entrambe le parti e con un vigore da noi sconosciuto, al mantenimento degli stabilimenti, dei posti di lavoro e al raggungimento degli obiettivi della casa tedesca. Si tratta di un approccio ben radicato che ha origine anche da questioni terminologiche: in Germania il termine “mitarbeiter”, con il quale viene genericamente definito il “dipendente”, ha un significato del tutto diverso da quello che gli viene attribuito da noi. Nessuna “dipendenza” dal datore di lavoro, ma piuttosto un rapporto di collaborazione sottolineato dalla particella “mit”, che in tedesco significa “con”.
Da questo concetto, applicato per esempio anche ai circa 1.000 dipendenti della filiale Volkswagen ubicata a Verona e previsto dal contratto interno nel quale il termine “dipendente” è bandito, deriva un approccio costruttivo, nelle trattative azienda-sindacati, nel quale trova posto più il pragmatismo che la contrapposizione ideologica fine a se stessa. Ciò non significa che durante le trattative il livello della tesione non salga mai, né che il sindacato germnico sia supino di fronte alle esigenze aziendali, e neppure che l’azienda sia troppo accondiscendente alle rivendicazioni dei lavoratori, ma semplicemente che si tiene d’occhio l’obiettivo finale.
Insomma, non si può parlare di una vera e propria cogestione, ma piuttosto di una “codeterminazione” (il termine tedesco è “mitbestimmung”, cioè “partecipazione”), ossia una condivisione delle decisioni che però alla cogestione, almeno in certi ambiti, somiglia molto. Fu proprio sulla base di questo approccio che venne firmato, nel 1993, il famoso accordo che permise di salvare 30mila posti di lavoro alla Volkswagen e la rinuncia a futuri licenziamenti riducendo l’orario di lavoro a 28,8 ore settimanali con una diminuzione del salario medio annuo, una soluzione in seguito adottata da centinaia di altre aziende tedesche.
E fu sempre l’approccio della “decisione condivisa” a condurre in porto l’altrettanto celebre accordo del 2001 detto “5.000 x 5.000”, che prevedeva la creazione di 3.500 posti di lavoro in una new-co a Wolfsburg (appunto, la Auto 5000 Gmbh) e altri 1.500 ad Hannover in cambio di una salario individuale immutabile unito a una flessibilità di orari mai prima raggiunta che prevedeva anche il sabato come normale giorno lavorativo. Entrambi gli accordi suscitarono discussioni e polemiche anche negli ambienti sindacali italiani, specie in quelli più arroccati su tabù ritenuti intoccabili (per esempio, quello dal sabato lavorativo) che spesso trasformano le trattative azienda-lavoratori in una serie di monologhi dove ciascuna delle parti assume, a rotazione, il ruolo del sordo incapace di ascoltare.
Ovviamente, non può essere taciuto il fatto che l’approccio ideologico della “mitbestimmung” è certamente più perseguibile in un’azienda, come Volkswagen, che conta nell’azionariato una rilevante partecipazione del Land della Bassa Sassonia, cioè di capitale pubblico. Il che costituisce una sorta di polizza assicurativa contro il rischio che il management possa introdurre di forza misure in grado di mettere a rischio la pace aziendale e anche quella sociale. Nelle aziende private tale rischio esiste, ma è indubbio che da noi, come le recenti vicende sindacali che riguardano i 19 operai della Fiat di Pomigliano licenziati e poi reintegrati dalla magistratura, espressioni come “gestione partecipativa” e “condivisione delle decisioni” abbiano ancora una lunga strada da percorrere prima di affermarsi.
A questo proposito, è emblematica la recente vicenda della VM di Cento (Ferrara), fabbrica motori diesel automobilistici di proprietà Fiat. Grazie al fatto che la casa intende introdurre i propulsori italiani anche sui modelli Jeep venduti sui mercati nordamericani, la produzione di VM dovrà aumentare dagli attuali 54mila motori annui fino ad almeno 120mila. In gioco ci sono 300 assunzioni In cambio del via al progetto, Fiat aveva chiesto una riorganizzazione degli orari di lavori che riducesse a 35-40 minuti la durata delle pause nell’arco della giornata lavorativa, pari a 63 minuti, ma offriva anche una compensazione economica.
Si è trattato, e alla fine la Fiom, sigla sindacale fortemente presente in azienda, ha sottoposto ai lavoratori la base d’accordo raggiunta: pause per 51 minuti al giorno in cambio di un premio di produzione annuo di 450 euro lordi (ma a tassazione ridotta, il che significa più soldi in tasca alle maestranze). Si è votato, e il referendum è passato con 638 “sì”, ma ben 206 lavoratori hanno votano “no”, trovando evidentemente sconveniente un accordo dal quale dipendevano 300 assunzioni (in una zona colpita dal terromoto) e 80 milioni di euro di investimenti. Non si può però non sottolineare che VM s’iè mpuntata su una razionalizzazione degli orari non tanto per far fronte a una crisi che richiedeva una riduzione del costo del lavoro (anzi, l’azienda deve espandersi), ma semplicemente ha messo sul piatto le assunzioni per erodere un po’ di pausa dal monte-minuti concesso agli operai.
A conti fatti, tra i 12 minuti che è riuscita a strappare e i 450 euro di aumenti che dovrà concedere, si può concludere che i vantaggi per l’azienda in termini di efficienza e riduzione del costo del lavoro saranno ben poco significativi. Il che fa pensare che dietro l’offerta condizionata si nascondesse il tentativo di Fiat di acquisire un vantaggio quasi simbolico a spese di benefici, in termini di durata delle pause, che gli operai si saranno certo conquistati durante i rinnovi del contratto interno. Al di là del bilancio vantaggi-svantaggi, però, c’è da sottolineare che ciò che a Cento ha richiesto un referendum e ha scatenato polemiche roventi, a Wolfsburg si sarebbe probabilmente risolto in cinque minuti con pochi grammi di “mitbestimmung”. O forse la questione non sarebbe mai nata.