Dov’è finita la civiltà dell’umanesimo se un Paese, l’Italia, che ha messo prima al centro dell’universo l’essere umano lo ha poi relegato ai margini come puro oggetto di mercanzia del sesso, del lavoro sottopagato, dello sfruttamento senza confini? Secoli di civiltà non hanno permesso di arginare un fenomeno drammatico, quello della tratta degli esseri umani, per il quale il nostro Paese s’aggiudica anche il triste primato europeo, almeno nel biennio 2008-2010. Secondo il Rapporto Ue (dati Eurostat presentati la settimana scorsa) nel periodo 2008-2010, delle 23.632 vittime della tratta di esseri umani in Europa solo 6.426 sono in Italia. I dati rivelano che si tratta maggioritariamente di donne (il 68%), mentre il 25% sono minori ed il 17% uomini. Al primo posto il triste e noto sfruttamento sessuale (62%) mentre per il 25% si trata di lavoro forzato ed il 14% altre forme (tra cui anche l’espianto di organi). Insomma la tanto decantata civiltà occidentale ed europea su questo versante ha un atteggiamento fin troppo lassista, anzi sembra cogliere il dramma delle migrazioni come mero strumento per produrre maggiore ricchezza (ad uso e consumo di pochi) che si traduce in sofferenza ed abusi di ogni tipo per i migranti, spesso relegati al rango di schiavi.
Ma ad allarmare non sono solo questi ultimi dati ma la diffusione e crescita del fenomeno anche a livello globale come dimostrano i dati dell’Ufficio delle nazioni unite contro la droga e il crimine (Unodc) che ha già presentato nel febbraio scorso, presso il quartier generale delle Nazioni unite, un rapporto sulla tratta di persone, un crimine che ogni anno genera miliardi di dollari di utili. Il Rapporto globale 2012 – stilato in collaborazione con il Group of Friends against Human Trafficking – presenta una panoramica mondiale e un’analisi di ben 132 Paesi.
Innumerevoli sono i casi di sfruttamento sessuale, lavoro forzato, accattonaggio, piccoli reati, prelievo di organi e altri scopi di sfruttamento: la tratta è un fenomeno globale, in crescita, in particolare per quanto riguarda i minori. In Italia, si stima che il numero di minori che si prostituiscono per strada oscilli tra i 1.600 e i 2000 casi e la maggioranza di questi sono vittime di tratta e sfruttamento. La nazionalità di queste vittime è soprattutto romena ma esistono altre nazionalità come dimostra la storia di H.M.
H.M. è giunto in Italia nel 2005 e proviene da una zona rurale del sud del Marocco. Nel suo Paese è pastore presso una piccola azienda agricola con uno stipendio molto basso. Sua moglie si occupa degli animali della fattoria. Le sue due figlie vorrebbero studiare ma lo stipendio è insufficiente ed è per questo che H.M. decide di partire per l’Italia, dove molti compaesani gli parlano di facili lavori e guadagni dignitosi. Parte dunque dal Marocco con un visto turistico senza alcun indirizzo di datori di lavoro italiani. Dopo una lunga odissea attraverso Spagna e Francia, giunge alla stazione di Torino dove incontra alcuni connazionali che, gli dicono, lo aiuteranno. Questi inizialmente gli offrono un posto letto a 300 euro in un appartamento e un lavoro come manovale. Ogni mattina, vicino alla stazione, un pulmino passa e lo carica per portarlo sul cantiere. Gli viene offerta una paga giornaliera di 25 euro.
H.M. accetta sperando in seguito di trovare un lavoro stabile e regolare. Il tempo passa e H.M. capisce in fretta che a Torino non è possibile trovare lavoro senza il sostegno dei propri connazionali, che nel frattempo gli chiedono un contributo di 200 euro per la mediazione con le imprese edili. Dopo molti mesi di permanenza in Italia si rende conto che non solo non ha guadagnato niente da inviare alla famiglia, ma ha anche contratto un debito con il mediatore. Decide dunque di arrotondare vendendo accendini e fazzolettini per strada. Dalle stesse persone che gli procurano la merce gli viene anche chiesto di spacciare droga ma lui rifiuta. Qualcuno lo informa che a Viareggio la situazione è diversa e può in breve tempo guadagnare per inviare soldi a casa.
Qui un connazionale lo porta a dormire in una roulotte situata in un campo nomadi alla periferia della città. Il posto letto è gratuito, H.M. deve solo pagare la luce al responsabile del campo, il quale ha anche il compito di non farlo allontanare o incontrare altre persone ‘per motivi di sicurezza’. Dopo un mese di lavoro per 12 ore al giorno viene spostato in un altro cantiere e poi in un altro ancora, così per circa un anno. H.M. non conosce mai direttamente gli impresari e durante il lavoro è controllato continuamente dal ‘mediatore’, che non è altro che un caporale che minaccia in continuazione i lavoratori-schiavi se tentano di ribellarsi. Nel corso di un blitz della polizia un suo connazionale che divideva con lui la roulotte viene fermato e immediatamente espulso. H.M riesce a fuggire ma capisce di trovarsi in una situazione pericolosa oltre che illegale. Intanto il ‘mediatore’ gli promette un contratto regolare e il permesso di soggiorno ma gli intima di non parlare con nessuno pena denuncia.
H.M. attende un contratto che non arriverà mai. Davanti alle sue rimostranze gli viene ridotta la mensilità. In un’occasione poi, davanti alle sue insistenze, viene picchiato e cacciato dal cantiere. Grazie al numero verde a sostegno delle vittime della tratta che gli fornisce lo sportello informativo dell’Arci riesce a entrare in contatto con gli operatori del progetto Provis di Pisa, un progetto nato inizialmente soltanto per le persone sfruttate nel mercato della prostituzione ma che è stato poi esteso anche alle persone sfruttate nel mercato del lavoro nero. Nonostante sia molto scosso e provato, H.M. decide di collaborare con la giustizia. Denuncia il suo sfruttatore, indica alle autorità giudiziarie tutti i cantieri in cui ha lavorato, descrive le condizioni lavorative di molti stranieri impiegati nell’edilizia.
Come quella di H.M. ce ne sono tante di storie. Un’altra è ad esempio quella di Ji Ya, cinese, giunto in Italia nel 2004. In Cina lavorava come impiegato delle ferrovie, era separato dalla moglie e aveva una figlia di 19 anni. Volendo migliorare la propria condizione finanziaria per aiutare sua figlia decide di emigrare verso l’Italia. Tramite alcuni parenti conosce un connazionale che, dietro un compenso di 10mila euro ottenuti con prestiti onerosi ancora non estinti, gli fa avere un passaporto danese con visto per affari. Da Pechino vola ad Helsinki, poi in treno fino in Germania e in aereo fino a Milano. Una volta giunto in Italia Ji Ya viene spedito in una fabbrica gestita da altri cinesi nella zona di Teramo dove si fanno coloriture e scoloriture di jeans, anche di marche contraffatte. Qui Li Ya entra in contatto con sostanze altamente tossiche. Gli viene data una mascherina monouso da usare più volte. In queste fabbriche, sorta di lager dove gli operai-schiavi lavorano senza sosta per 16-18 ore al giorno dormendo e mangiando in fabbrica, si effettua il sandblasting, che consiste nello sparare attraverso un compressore della sabbia direttamente sulla porzione di tessuto per scolorirlo.
Normalmente questa tecnica della ‘sabbiatura’ dovrebbe essere effettuata con macchinari specifici ed impiegata soltanto se i materiali usati contengo meno dello 0,5% di silice (e solo con adeguate protezioni). Ma nella sbiancatura dei jeans, il lavoro viene fatto a mani nude con l’ausilio di pistole manuali ad aria compressa che sparano sabbia contenente fino all’ 80% di silice, che è altamente tossica in quanto, essendo una polvere sottile, se inalata, causa una malattia irreversibile e mortale che colpisce i polmoni: la silicosi. L’uomo lavora per tre anni prima in una fabbrica, poi in un’altra, ma sempre dello stesso gestore. Dopo un periodo di forti angherie psicologiche e un peggioramento progressivo delle sue condizioni di salute, Ya decide di lasciare la fabbrica-prigione. Grazie all’aiuto di un sindacalista di Roma riesce ad entrare in contatto con il Progetto “Right Job” (il Progetto per la protezione, inclusione e reinserimento per persone vittime di tratta a scopo di sfruttamento Lavorativo finanziato dal Dipartimento per le Pari Opportunità). Grazie a questo supporto esterno Ji Ya denuncia i suoi sfruttatori, ottiene il permesso di soggiorno ex art.18 dopo un’attesa di parere positivo da parte della Procura di Teramo di oltre nove mesi.
La vicenda giudiziaria però è stata archiviata. In tutta questa triste vicenda però c’è un dato positivo: a livello globale, il numero degli Stati che infliggono condanne ai trafficanti di esseri umani sta aumentando. Tra il 2003-2006, circa il 40% dei Paesi non aveva mai istruito un processo, mentre ora questa percentuale è diminuita al 16 per cento. Ma bastano questi procedimenti giudiziari a debellare questo problema? Secondo Irene Zancanaro – esperta italiana ed europea in diritti umani, attualmente impegnata in un training in Kosovo rivolto agli operatori sociali e legali che lavorano nel processo di prevenzione ed integrazione delle vittime di tratta – non basta. «Anche se vi è un aumento generale del numero di procedimenti giudiziari e condanne a livello mondiale – dice Irene Zancanaro – la risposta globale della giustizia penale alla tratta di esseri umani sembra rimanere molto debole. Un aspetto cruciale importanza è quello di fondare una risposta globale su aspetti quali la prevenzione, l’assistenza e la re-integrazione delle vittime, oltre a una regolamentazione delle politiche migratorie e del lavoro».
C’è poi la delicata questione dei minori coinvolti nella tratta di esseri umani. Nonostante la natura nascosta dei reati di tratta, è stato stimato che il fenomeno coinvolga circa 1,2 milioni di minori, ovvero 27% delle vittime a livello mondiale, e due terzi di quest’ultimi sono bambine avviate allo sfruttamento sessuale. Dal rapporto s’evince che il flusso della tratta di bambini sta crescendo rapidamente in modo allarmante, passando dal 20% nel periodo 2003-2006 al 27% tra il 2007 e il 2010. A livello globale, le donne in generale rappresentano dal 55 al 60% delle vittime. Tra le forme di sfruttamento, quella più diffusa è lo sfruttamento sessuale, che rappresenta il 58% dei casi di tratta, mentre i casi di tratta per sfruttamento lavorativo sono raddoppiati rispetto al periodo 2007-2010 (18%), raggiungendo il 36 per cento.
Esiste poi un legame diretto tra crisi occupazionale ed economica e il fenomeno della tratta umana: più cresce il tasso di disoccupazione e povertà nei Paesi di origine, più aumenta il numero delle vittime. In Europa, Asia Centrale e America, è più diffusa la tratta per sfruttamento sessuale mentre in Africa, Medio Oriente, Sud-Est asiatico e area del Pacifico è più comune lo sfruttamento lavorativo. La verità amara è che l’Europa, nel 2013, non è ancora riuscita a debellare la schiavitù anzi sembra che il suo sistema di ‘sopravvivenza economica’ sia legato direttamente a questa piaga. Logico dunque che essa resti per lo più invisibile. A nessuno interessa infatti che crolli il castello di menzogne sul quale si basano le nostre ‘civili’ e ricche società.