Cina, i rischi di un’economia pompata oltre misura

Lo scorso 9 aprile l’agenzia di rating Fitch ha declassato il debito cinese, da AA- ad A+

PECHINO – La domanda è: riuscirà la Cina a rimborsare il proprio debito? Se lo sono chiesti gli analisti di Fitch – una delle “tre sorelle del rating” che dispensano voti belli e brutti alle finanze di imprese e Stati – per poi concludere che lanciare un monito alle autorità economiche di Pechino fosse cosa buona e giusta. Ed ecco che la Cina passa da AA- ad A+.

Poco male, si dirà, ma è la prima volta dal 1999 che un’agenzia di rating declassa il debito cinese. Ora, qualsiasi cosa si possa pensare delle agenzie di rating, c’è del vero. E il downgrade di Fitch va a mettere il dito nella piaga della difficile transizione dell’economia cinese.

Non è il debito estero a essere in questione. Lì, la Cina continua ad accumulare riserve, che hanno ormai raggiunto i 3.400 miliardi di dollari. Parliamo invece del debito con se stessa, i soldi che lo Stato riversa nella società e che non tornano più indietro. Segno di un’economia pompata oltre misura, ma che non restituisce ciò che le viene dato: inefficiente.

Fitch identifica in una serie di “debolezze strutturali di fondo” gli attuali problemi: tra questi, una rapida espansione del credito, con rischi crescenti legati all’ingigantirsi del sistema bancario ombra.
Che cosa significa? Ce lo spiega Michele Geraci, responsabile per la Cina del Global Policy Institute, professore di finanza alla Zhejiang University e all’università di Nottingham, nonché columnist di China-Daily.

«La crescita cinese si basa sempre più sul debito, come succede anche per l’Europa: sugli investimenti. Se non tornano indietro, c’è un problema. Il punto è che in Cina il debito è soprattutto contratto dagli enti locali, che utilizzano le risorse per costruire case e infrastrutture. I soldi si trasformano in cemento, e questo è un percorso a senso unico perché asset liquidi si trasformano in quanto di meno liquido ci sia in circolazione».

In pratica, lo Stato, attraverso le banche (di Stato pure loro), mette in giro una massa di denaro che finisce in investimenti speculativi o, comunque, improduttivi. Una massa che potrebbe ormai avere raggiunto il 198 per cento del Pil e che è in costante crescita. Ci finisce sia direttamente, attraverso le banche che finanziano i progetti dei governi locali; sia indirettamente, con il “sistema bancario ombra”, l’altro problema identificato da Fitch.

Si tratta dei prestiti informali con cui chi è a caccia di liquidità aggira i vincoli posti dalle banche. Il paradosso è che molti di quei soldi arrivano proprio dagli istituti di credito: chi ha accesso al credito bancario ufficiale (amministratori di grandi imprese di Stato, funzionari locali, businessmen con i “canali giusti”), in molti casi travasa le risorse verso il mercato ombra perché lì gli interessi sono superiori e c’è modo di fare parecchi soldi semplicemente spostando denaro.

Comunque arrivino i soldi, il problema vero è tuttavia che non tornano più indietro. Perché? Quando nel 2008 il nuvolone scuro della crisi globale si addensava a occidente, la Cina corse ai ripari con un pacchetto di stimoli da 4mila miliardi di yuan (586 miliardi di dollari) che finì soprattutto in costruzioni e infrastrutture. Non fu solo il modo più facile per spenderli, perché il Paese aveva comunque bisogno di collegamenti degni del suo nuovo status economico e il suo ceto medio in espansione cominciava a cercare una qualità della vita ben rappresentato dalla casa. Inoltre, il mattone, l’asfalto e i binari davano lavoro a moltitudini di migranti rurali non specializzati.

Ma in soli cinque anni la Cina è cambiata. Oggi, la massa di denaro continua a finire in immobiliare e infrastrutture, ma sono altri gli investimenti di cui il Dragone ha bisogno. Il denaro viene speso male, «perché va in progetti che non hanno un grande ritorno», continua Geraci. «L’immobiliare non produce niente, tranne che per l’indotto della produzione di cemento e del legname e della carpenteria». Troppo poco.

Ne consegue che «le banche di Stato stampano ancora più denaro per tappare il debito, oppure lo rifinanziano, allungandone la scadenza. Sono tecnicismi che prolungano solo il termine e che poi si pagano o con l’inflazione o con il default».

Infatti, per evitare che l’inflazione si alzi troppo bruscamente (oggi è al 3,2 per cento), il governo usa una tecnica di sterilizzazione, togliendo artificialmente parte della massa di denaro in circolazione: «Emette buoni del tesoro che, venduti alle banche, tolgono liquidità alle banche stesse», continua Geraci. «Se il bond matura in 5 anni, per 5 anni quella massa di denaro non è in circolazione. Il problema però è che quando matura, torna la massa di moneta». E siamo da capo.

È uno sperare che in futuro “succeda qualcosa” che scongiuri inflazione o default, ed è qui che la Cina di oggi rischia di assomigliare in tutto e per tutto all’Europa dei decenni scorsi: «Tanto se l’inflazione rientra tra vent’anni, io non sono più al governo. Così hanno ragionato anche i politici europei».

«Ci vuole maggiore attenzione all’investimento», continua l’economista. «È necessario eliminare la crescita a tutti i costi dai target delle amministrazioni locali, perché questa fomenta l’investimento quale esso sia. Ci vogliono invece aziende che restituiscano i soldi spesi. Invece di aprire 700 negozi di scarpe che non vendono, ce ne vogliono 50 che vendono. È fondamentale fare attenzione alla qualità del business».

Quindi, e qui si tocca il punto dolente, ci vuole capacità di innovare. Come ottenerla? Ecco le misure necessarie secondo Geraci: «C’è un sistema educativo da rifare completamente fin dalla scuola primaria; la divisione del lavoro da promuovere nelle aziende, creando training e incentivi per far sì che i lavoratori non se ne vadano dopo sei mesi; bisogna investire in ricerca&sviluppo, perché i brevetti cinesi sono oggi numerosi ma poco funzionali; infine, è necessario spendere parte di quei 3.400 miliardi di riserve nell’acquisizione di compagnie dotate di know-how in giro per il mondo».

È una ricetta con molti ingredienti e va riconosciuto che il governo cinese ci sta provando. In questo quadro, come si inserisce il progetto di promuovere ancora di più l’urbanizzazione?
«Non è l’urbanizzazione che crea crescita economica, ma il contrario», osserva l’economista. Non è vero che la città crea automaticamente lavoro e innovazione; succede piuttosto che la gente vada in città perché c’è già lavoro. Anche se fai crescere la città, la gente è quella che è. I migranti che oggi vanno nelle metropoli non fruiscono di servizi decenti perché costano troppo. Ma allora, ragionando in termini economici, significa che gli stessi migranti no sono produttivi, perché non riescono a creare le risorse con cui si potrebbero pagare i loro stessi servizi». In sintesi, l’urbanizzazione senza innovazione è un modello non efficiente.

Il punto è che in Cina «continuano ad aumentare quantitativamente i fattori di input: più gente dalle campagne alle fabbriche, più gente dalle campagne alla città. Ma non aumentano ancora quelli qualitativi. Anche l’urbanizzazione rischia quindi di diventare un processo puramente quantitativo, perché non è automatico che più gente in città significhi maggiore qualità produttiva».

L’impressione è che la nuova leadership cinese lo sappia benissimo e che non sia intenzionata a replicare gli errori della vecchia Europa. I continui richiami del presidente Xi Jinping a una crescita meno sostenuta e più qualitativa sono lì a dimostrarlo. Che poi riesca davvero a traghettare la Cina oltre i propri limiti, è tutto un altro discorso.
 

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