Pechino – Il messicano è durato due riprese, alla terza ha cominciato ad ansimare visibilmente, incassando pugni che arrivavano chissà da dove, salutati dai boati dei 15mila che affollavano il casinò. Il campione aveva smesso di stare in guardia dal trentesimo secondo della prima ripresa, anzi forse non c’era mai stato, aveva rischiato qualcosa nelle prime due per troppa sicurezza, era perfino scivolato in terra cercando un improbabile gancio destro largo, ma continuava comunque ad arrivare al bersaglio con ripetuta facilità. Più basso dell’avversario, accorciava sistematicamente gli spazi, sparando colpi come una mosca impazzita. Alla fine dei quattro round, ci si sarebbe accorti che non aveva mai neanche provato la sua combinazione risolutrice, il montante destro doppiato dal gancio sinistro.
Non è una cronaca da Las Vegas o Atlantic City, bensì da Macao, località simile in quanto a modello economico, ma con la piccola differenza che sta dall’altra parte del mondo. Il 6 aprile, nella capitale offshore del gioco d’azzardo cinese, il due volte campione olimpico Zou Shiming ha preso a pugni che sembravano schiaffoni lo sconosciuto Eleazar Valenzuela, nel proprio debutto da professionista all’hotel-casinò Venetian. Verdetto unanime alla fine dei quattro round dimostrativi, e ci mancherebbe. Del resto, i trecento milioni di cinesi che hanno assistito in diretta al match su Cctv-5 non avrebbero tollerato un esito diverso.
A dire il vero, il professionista debuttante non è di primo pelo. Ha trentun anni, è un minimosca (50,8 chili di peso) e ha già già vinto tre campionati del mondo dilettanti (2005, 2007 e 2011) e due olimpiadi (Pechino 2008 e Londra 2012). A lui si affidano il popolo cinese per l’ennesimo input al proprio rinato orgoglio patrio e l’ottuagenario manager pugilistico Bob Arum per sbarcare oltre Muraglia e fare tanti, tantissimi soldi.
Eppure nel Celeste impero il pugilato esiste di fatto solo dal 1986, anno in cui fu tolto il divieto che risaliva agli anni Sessanta. Per il presidente Mao, la nobile arte era un po’ troppo selvaggia e occidentale. Con l’avvento del turbocapitalismo secondo caratteristiche cinesi di Deng Xiaoping, lo sport più individualista e competitivo del mondo fu riammesso.
Oggi, quello della boxe professionistica in Cina è il tipico caso in cui domanda e offerta si incontrano alla perfezione. Da un lato un guru come Arum, forse meno noto di Don King solo perché ha un taglio di capelli piuttosto anonimo, già promoter del giovane Alì e di recente fondatore e amministratore delegato di Top Rank, l’agenzia di Las Vegas con cui ha gestito campioni del calibro di Oscar De La Hoya e Manny Pacquiao. Dall’altra parte quei trecento milioni di cinesi incollati al televisore, in prospettiva molti di più, un numero nettamente superiore a quanti in Occidente seguono ormai gli incontri che valgono per il titolo mondiale.
Un pimpante Arum, che ha investito 300mila dollari sul primo incontro di Zou, ha ammesso dopo l’incontro che «per ogni uomo d’affari serio questo è un Paese da un miliardo e quattrocento milioni di persone, che sta emergendo economicamente per diventare una vera superpotenza».
«È un Paese – ha continuato l’ottantunenne promoter – dove la gente comincia ad avere la possibilità di assaggiare ciò a cui in Occidente siamo abituati, come la boxe professionistica».
Infine, il manager si è sbilanciato nella consueta previsione che siamo ormai abituati a sentire tutte le volte che un nuovo prodotto occidentale sbarca in Cina (dal vino alle automobili, passando per il cioccolato): «Penso che se si lavorerà bene, questo diventerà il primo pubblico al mondo per quanto riguarda il pugilato».
Il modello di business è quello della pay-tv, ma Arum è una vecchia volpe. L’incontro del 6 aprile è stato trasmesso in chiaro sulla televisione di Stato e, almeno per i primi tempi, si continuerà così. Per la prossima estate c’è già in programma un’altro incontro di Zou – l’avversario per ora è ignoto – sempre al Venetian di Macao e sempre gratis. Questa volta sarà sulle sei riprese, due in più: la volpe si muove a piccoli passi per catturare la propria preda e, probabilmente, per evitare anche premature figuracce al minimosca targato Pechino.
Lui, Zou, è un ragazzo descritto come «umile ed educato». Originario di Zunyi, prefettura nella provincia del Guizhou, tra le più povere della Cina, corrisponde alla descrizione del boxeur dalle modeste origini; eccezione fatta per quell’understatement che lo distingue per ora da molti corrispettivi occidentali, smargiassi già dalla conferenza stampa. Non ha neppure un soprannome da combattente indomito e, intervistato, ha invitato i tifosi a trovargliene uno loro.
Da piccolo faceva kung-fu, poi convinse i genitori a lasciargli provare i guantoni. Aveva ragione lui.
La sua storia assomiglia un po’ a quella raccontata da China Heavyweight, un documentario del 2012 (produzione sino-canadese) che attraverso la boxe descrive l’ennesima sfumatura di questa Cina in transizione. Lì, nel Sichuan rurale, due talent scout mandati da Pechino cercavano promesse pugilistiche da crescere e mandare, chissà, alle olimpiadi. Qui invece c’è un omino di trentun anni che si sta caricando sulle spalle un business pugilistico-televisivo da milioni, forse miliardi, di dollari.
Bob Arum ha ammesso di voler mungere da Zou molti più soldi di quanti ne abbia fatto con il grandissimo filippino Manny “Packman” Pacquiao. La classe tra i due pugili non è neanche lontanamente paragonabile, ma la Cina è molto più grande delle Filippine.
L’ottantunenne promoter ha già annunciato che entro la fine del 2014 il campione cinese combatterà per il titolo mondiale. Tutto per ora torna, nel business architettato dalla vecchia volpe Bob Arum.