Giovani, sopra le righe, eccentrici e irrimediabilmente precari. Se ne vedono tanti in giro per Milano in questi giorni del Salone del mobile. Tra cocktail party, showroom, vernissage, openings e chi più ne ha più ne metta (in questo settore le parole straniere sono quasi d’obbligo). Designer, architetti, grafici, illustratori. In una parola: creativi. E mentre dentro e fuori la fiera, la città “capitale della moda e del design” si mette in mostra con compratori russi, cinesi, sudamericani, i designer di casa nostra faticano a vivere d’arte. Spesso arrotondano come magazzinieri, baristi, commessi. Altro che artisti maledetti: alle spalle hanno mamma e papà che sganciano ogni mese la paghetta per l’affitto e le serate nei locali a discutere dell’artista di turno sono un lusso raro. Vivere di creatività in Italia è roba per benestanti, o per pochi fortunati.
DESIGNER’S INQUIRY
Lo dice anche l’inchiesta “Designer’s Inquiry”, realizzata dal Cantiere per pratiche non-affermative di Milano. Il 43% dei creativi intervistati vive in affitto, quasi il 39% abita in case di proprietà dei genitori. Non solo: per più di un terzo è necessario arrotondare lo stipendio svolgendo altri lavori: barista, imbianchino, portiere notturno, magazziniere. E il contratto negli studi di progettazione, se c’è, è soprattutto uno (53%): co.co.pro, contratto di collaborazione a progetto. Quasi la metà dei designer intervistati ha aperto almeno una volta la partita Iva, e tra questi il 33% l’ha fatto su richiesta (più o meno diretta) del datore di lavoro. Il 70% ha fatto o fa ancora un tirocinio, che in più della metà dei casi non è retribuito. Le retribuzioni, invece, restano eternamente “giovani”: la maggioranza lavora in media dalle 7 alle 11 ore al giorno per uno stipendio di meno di mille euro. Gli straordinari, neanche a parlarne. E quando vengono retribuiti, sono barattati con «gentilezze e flessibilità su permessi e ritardi, biglietti per concerti, ore libere». In questo quadro, l’autonomia economica resta un miraggio: un terzo dei progettisti interpellati dipende ancora da mamma e papà per arrivare a fine mese («se non fossi sostenuto dai miei genitori dovrei smettere di studiare e rinunciare a lavorare nel campo del design»), un altro terzo riesce appena a far quadrare il bilancio a fine mese.
Altro che vita d’artista. Gli anni del boom del design milanese sono lontani anni luce. Dall’inchiesta emerge che il 55% dei progettistisvolge la sua professione in uno studio, ma di questi un terzo si porta il lavoro a casa per continuarlo la sera e durante i fine settimana. Il lavoro in casa viene considerato da molti come claustrofobico e non stimolante, in tanti hanno l’abitudine di mangiare davanti al computer, quasi la metà continua a lavorare fino a notte inoltrata. E il co-working, che fa tanto artista, è ancora poco diffuso. Non mancano neanche gli acciacchi da creativo: mal di schiena, problemi alla vista, ansia, stress, depressione e disturbi del sonno. Senza contare che avere figli per il 22% delle giovani progettiste è ancora l’ostacolo principale alla realizzazione professionale («non c’è stato nessun colloquio di lavoro in cui non mi abbiano fatto pressioni su una mia futura gravidanza, anche nello studio dove lavoro attualmente, gestito da due donne»).
LA VENDETTA DEI PRECARI: IN UN SITO I LEAK DEGLI STUDI DI DESIGN
Stagisti, cocopro, finte partita Iva, precari. Il popolo dei designer, architetti, illustratori passati almeno una volta tra le scrivanie, i computer e i tavoli da disegno dei migliori studi italiani ha deciso di vendicarsi. E, almeno per una volta, di raccontare «il lato nascosto degli studios». Il tutto, ovviamente, su Internet. E in forma anonima. Il sito che li raccoglie, in tre lingue diverse (italiano, inglese e francese), si chiama Archleaks.com. Ci sono tutti i grandi nomi dell’architettura e del design italiani. Criticati aspramente dai ragazzi che, a quanto pare, li hanno conosciuti da vicino. «Imbarazzante l’offerta di una paga da fame per essere sfruttato come un mulo», scrive qualcuno. E ancora: «Stipendio zero», «Si crede un archistar», «Niente professionalità, solo sfruttamento. Tanti stagisti e solo partite Iva». E di uno dei più grandi nomi italiani all’estero scrivono: «Io avevo sentito che pagava con i suoi disegni!». Qualcuno si rassegna: «Sto cercando lavoro per ora… Leggendo tutte ste cose ho deciso di fare il muratore».
31 ANNI E MAI UN’ASSUNZIONE “VERA”
Il percorso di studi per diventare un designer professionista, Niccolò, 31 anni, l’ha fatto tutto. E nei migliori istituti italiani: prima la laurea triennale in prodotto industriale al Politecnico di Milano, poi l’Istituto europeo di design (Ied) di Torino. «Dopo la base teorica universitaria», racconta, «volevo qualcosa di più pratico». Si specializza in automotive design, quello delle automobili per intenderci. E poi viene chiamato a guidare la progettazione di una city car elettrica in un piccolo studio di Milano. Quatto anni dopo, il grande salto in uno degli studi di design più in vista della città. Uno di quelli che sta dietro ai grandi marchi italiani degli oggetti da cucina.
Niente male, tutto sommato. E i contratti? «Siamo quasi come fantasmi», racconta Niccolò. «Formalmente siamo tutti freelance che però lavorano esattamente come i dipendenti». Il primo step è un periodo di prova gratuito, poi arriva il fantomatico co.co.pro. Tre sillabe e tanta flessibilità. Se non fosse che «invece sei bloccato nello studio per 8 ore e mezza-nove al giorno e vieni pagato 500-600 euro all’inizio, massimo 1.400 euro dopo parecchi anni». Ma «di assunzioni non ne ho mai vista una», ammette Niccolò. «Ti fanno il co.co.pro finché è possibile e poi ti chiedono di fare la partita Iva». E con uno stipendio del genere, «a Milano dopo aver pagato l’affitto ti rimane ben poco».
La verità, dice Niccolò, «è che siamo una categoria assolutamente ignorata e indefinita». Un esempio: «La segretaria dello studio per il quale lavoravo aveva un contratto regolare con tanto di tredicesima e stipendio. E il progettista, che avrebbe dovuto essere il cuore del lavoro, aveva invece contratto atipico e stipendio più basso». È così che funziona: «Negli studi c’è un riciclo continuo di giovani, è difficile trovare over 35. Ti dicono: “O così o te ne vai”. E fuori c’è la fila di gente pronta a prendere il tuo posto». Anche se, confessa Niccolò, «quelli bravi a fare questo lavoro sono pochi secondo me, alcuni scelgono questo settore per l’atmosfera che ruota attorno a questo mondo. Pensano che sia una professione divertente. Vuoi mettere il fascino di dire la sera alle ragazze che fai il designer?».
Niccolò, il favoloso mondo del design lo ha esplorato in lungo e in largo: dalla progettazione di giardini con una architetta spagnola alla scuderia di auto da rally, dalle illustrazioni di un libro in ebraico fino ad approdare alla discografia in società con il fratello. Ora, dopo otto anni negli studi, si è messo in proprio. Si è fatto un sito con le illustrazioni dei suoi progetti, si cerca i clienti da solo e cerca di far quadrare i conti. «Lo stipendio», dice, «varia in base a quello che mi capita». Ma una cosa finora, a 31 anni, l’ha imparata: «Devi essere molto molto creativo, non essere specializato su una sola cosa, e avere un tuo metodo».
DESIGNER-BARISTA E “FINTO” STAGISTA
I suoi colleghi universitari figli di designer e architetti un lavoro negli studi di Milano l’hanno già trovato. Marco, 27 anni, dopo una laurea in Architettura d’interni al Politecnico di Milano, è ancora “intrappolato” nel claustrofobico mondo degli stage. Questa volta in un grande studio d’architettura di Milano. Per sei mesi. E sembra molto esperto: «Ci sono i classici stage che non ti fanno fare nulla di utile, a parte qualche banale pratica di studio, e poi ci sono quelli veramente formativi, che ti servono a fare curriculum». Anche perché poi, per dirla tutta, «non è che scrivi che tipo di contratto avevi in quello studio, scrivi solo che hai lavorato per quello studio. Nel prossimo aggiornamento mi qualificherò come collaboratore, inserendo nel mio cv e portfolio i progetti su cui ho lavorato in questi mesi da stagista».
Non poteva fare altrimenti, dice. «La laurea e gli stage curriculari non mi bastavano per trovare lavoro. Ho mandato 40-50 curriculum e non ho ricevuto alcuna risposta. Tutto ciò che sto facendo non risulta da nessuna parte, quindi non saprei neanche definirlo. L’ho chiamato stage, perchè dopo la laurea è quella la tipologia più diffusa, ma non è proprio così». Di rimborso spese, per questo “pseudostage”, neanche a parlarne. «Ci siamo messi d’accordo così: ogni tanto faccio qualche pratica per conto di altri che però non posso firmare e mi danno qualcosa». Intanto, segue i progetti dello studio, dagli arredi all’illuminazione. E per tirare avanti nel weekend continua a fare il barista, come ai tempi dell’università.
«Per come sono le cose attualmente», aggiunge, «è già una fortuna trovare una prima attività anche non retribuita, perchè senza esperienza non trovi un primo impiego, ma se il primo impiego non ti dà la minima formazione, alla seconda rischi di trovarti spiazzato e in difficoltà, poichè magari ti hanno fatto fare cose non particolarmente utili, dal tagliare le tavole, al semplice disegno di cose che neanche conosci». I progetti, Marco li rimanda all’anno prossimo, «quando dovrò per forza di cose cercare un lavoro retribuito, venendo molto di più a compromessi e accettare situazioni differenti, mettendo inevitabilmente al primo posto un guadagno sufficiente».
IN DANIMARCA, FUGA DAL DESIGN ITALIANO
Tra dieci giorni Giorgia spegnerà le sue 27 candeline. Non nella città dove è nata, ma in Danimarca, dove ha scelto di vivere per seguire un ragazzo conosciuto in Australia, oltre che il sogno di lavorare nel mondo del design e dell’architettura. In tasca, una laurea al Politecnico di Milano e una serie di esperienze all’estero: prima in California, poi a Sidney e un esperienza Erasmus a Goteborg, in Svezia. Insomma, quello che si direbbe un curriculum d’oro. Ma non in Italia.
«Dopo l’ennesimo invio di curriculum», racconta, «ho trovato uno studio a Milano». Il suo percorso ricorda quello di tanti altri: «Ho dovuto aprire la partita Iva, cosa apparentemente utile anche per me, che volevo collaborare con più studi, e che in realtà si è rivelata utile solo allo studio che può non assumerti e pagarti due lire». Dopo sei mesi, continua, «senza imparare poi molto, mi sono spostata in un altro studio sempre a Milano, ma la situazione non è cambiata molto». Paga misera, «se non ridicola», aggiunge lei. «E crescita maggiore rispetto allo studio precedente ma comunque non sufficiente per quello che avrei desiderato». E così decide di mollare. «Anche perché io ho studiato per fare l’architetto, non per essere quasi sfruttata senza ricavarcene molto in cambio».
E da meno di un mese è volata in Danimarca. «Mi sono trasferita qui per una serie di ragioni», ammette, «prima tra tutte il mio moroso danese conosciuto sei anni fa a Sydney, ma devo dire che la mia instabilità lavorativa in Italia mi ha dato una scusa in più per ripartire». Intanto, ha fatto diversi lavori per arrotondare: «Commessa, barista, hostess, insegnante d’italiano, ma ovviamente vorrei fare quello per cui ho studiato e vivere di quello. Cosa non semplicissima oggi». In Danimarca Giorgia non ha ancora trovato un lavoro stabile e spera di poter lavorare con aziende che hanno sede sia in Italia sia in Danimarca. «Qui noi architetti e designer italiani siamo ancora visti molto bene, magari il fatto di aver studiato a Milano potrà essermi utile», dice. E poi aggiunge con nostalgia: «Spero che un giorno l’Italia non sia più la nazione da cui fuggire».