Siamo in Italia agli inizi degli anni ’70. Liborio Bonifacio un veterinario che esercitava ad Agropoli in provincia di Salerno, raggiunge proprio in questi anni l’apice della sua carriera. D’altra parte chi non diventerebbe famoso se scoprisse la cura contro il cancro? E Bonifacio (a detta sua) c’era riuscito: aveva inventato il “siero di Bonifacio” capace di guarire la terribile malattia. Uno dei tanti (forse il primo trattato con tanto clamore dai media), “stregoni” italiani che, medici o non, spacciano come miracolose cure senza fondamenti scientifici. A livello locale come nazionale.
La teoria del veterinario di Agrigento nasceva da un’osservazione fatta negli anni ’50, secondo cui le capre non si ammalavano mai di cancro (perché dopo averle esposte per venti giorni a una sostanza cancerogena – il benzopirene – non svilupparono mai il tumore che ci si aspettava). Perciò ideò un siero ottenuto da estratti biologici di questi animali come rimedio per la malattia. Il “siero di Bonifacio” era ottenuto mescolando alle feci dell’animale, urina e acqua. Il risultato filtrato e sterilizzato veniva iniettato ai pazienti ogni due giorni e fornito dal “Comitato comunale per la lotta contro il cancro”. Inoltre dovevano essere usate le feci di capre femmine se il tumore era un sarcoma, o di maschio se era un carcinoma.
Bonifacio fece qualche “sperimentazione” su cavie animali e umane ma senza ottenere nessun risultato che ne dimostrasse l’efficacia. In breve tempo, però, grazie al passaparola e ai racconti aneddotici il suo nome iniziò a diffondersi in tutto il Paese, e le persone accorrevano a casa sua per essere curate. Tanto che nel 1970 il Ministro della Sanità di allora fece partire anche una sperimentazione nazionale a causa della pressione popolare. Senza ottenere grandi risultati: «Nessuna azione curativa sul cancro, non cambia la sintomatologia e non esercita effetti benefici sulle condizioni del paziente» come dichiarato dal ministero e riportato da Salvo Di Grazia, medico e blogger de Il Fatto Quotidiano. Senza considerare che il “siero” «non era costante nella sua fabbricazione e nel confezionamento, perché le fiale venivano preparate e chiuse a mano, e perciò soggette a contaminazione». E il preparato era semplicemente un «estratto acquoso contenente tracce di proteine diluite in soluzione di glucosio e somministrato attraverso flebo contenenti vitamine, normalmente in commercio».
A distanza di qualche anno la storia si ripete in maniera molto simile.Luigi Di Bella, fisiologo siciliano, nel 1997 diventa famoso per aver trovato una cura miracolosa contro il cancro, il cosiddetto “metodo Di Bella”. Tutti ne parlano, in Tv, sulla stampa nazionale e per le strade, tanto che, come nel caso precedente, su pressione del popolo l’allora Ministro della Sanità Rosy Bindi dà il via a una sperimentazione nazionale, sebbene non ci sia nessun presupposto scientifico per farlo e sia la Commissione Unica del Farmaco, sia il Consiglio Superiore di Sanità avessero espresso parere contrario. L’onorevole Bindi giustificò la sperimentazione del protocollo Di Bella sulla base dell’allarme sociale che stava causando la vicenda.
La multiterapia Di Bella, a base di: somatostatina/octreotide, retinoidi, vitamine E, D, C, melatonina, bromocriptina, ciclofosfamide (un chemioterapico) ecc, risultò inefficace e non si passò alle fasi successive di sperimentazione, previste dall’iter di approvazione dei farmaci. Ma Di Bella e i suoi sostenitori accusarono gli sperimentatori di aver operato in maniera scorretta utilizzando farmaci scaduti e contaminati. Nel ’98, inoltre vennero finalmente esaminate, dopo molti tira e molla, le cartelle cliniche dei pazienti curati da Di Bella: risultarono lacunose e prive di dati incoraggianti. Nei primi anni 2000 il caso torna alla ribalta fino a ricevere nel 2005 il no definitivo dell’Istituto Superiore di Sanità. Nonostante questo sono ancora molte le persone che si affidano alla cura Di Bella, di cui oggi si occupano i figli del defunto medico siciliano.
Nel 2012 ci risiamo. Questa volta la cura riguarda le malattie neurodegenerative. Davide Vannoni, psicologo e docente dell’Università di Udine (neanche medico), fondatore della Stamina Foundation mette a punto, insieme a Marino Andolina, ex coordinatore del Dipartimento trapianti adulti e pediatrico all’Irccs Burlo Garofalo di Trieste, una cura a base di cellule staminali mesenchimali. Nessuna evidenza scientifica, nessuna prova che la terapia funzioni. Tutto parte quando «Vannoni nel 2004 in Russia, riceve un trattamento a base di staminali per una paralisi di origine virale» come racconta anche Alison Abbott su Nature. Dopo di che invita uno scienziato russo e uno ucraino a Torino per sviluppare il metodo e afferma che «da allora Stamina ha trattato circa 80 pazienti incluse persone con Parkinson, Alzheimer e disordini muscolari». Unico dettaglio: i risultati dei suoi lavori non sono mai stati pubblicati da nessuna parte. Né tantomeno il procedimento per ottenere le cellule staminali mesenchimali, estratte dal midollo osseo e somministrate ai pazienti.
L’unica pubblicazione apparsa finora nelle riviste scientifiche (Neuromuscular Disorders) è il trial clinico condotto all’ospedale Burlo Garofolo di Trieste su cinque bambini con atrofia muscolare spinale (Sma). Due sono morti e tre hanno sospeso il trattamento. «Prelevare le cellule, coltivarle in laboratorio, espanderle e trattarle in modo che sappiano eventualmente riparare certi danni è molto, molto difficile: sono attività che si basano su procedure estremamente rigorose, basta non osservarne una e salta tutto» spiega Giuseppe Remuzzi, Primario di Nefrologia e Dialisi degli Ospedali Riuniti di Bergamo e Direttore dell’Istituto Mario Negri di Bergamo, a Rbsalute. «Non risulta che Stamina segua queste regole e le conoscenze in questo campo non si improvvisano. E allora le cellule non crescono, si modificano, muoiono: Iniettare quei preparati non è inutile, è pericoloso».
Proprio per questo l’Istituto superiore di sanità e l’Aifa nel settembre dello scorso anno avevano imposto alla Stamina Foundation, che all’epoca operava presso la struttura pubblica degli ospedali di Brescia, di cessare ogni tipo di attività. Secondo l’ordinanza dell’Aifa, non solo non rispettavano la normativa riguardo la struttura e le condizioni igieniche in cui si operava ma mancavano anche dati scientifici su cosa venisse iniettato ai pazienti e il parere del Comitato Etico dell’ospedale che ha autorizzato singolarmente il trattamento dei pazienti è praticamente inesistente.
Seguono ricorsi in Tribunale delle famiglie dei bambini in cura, in parte vinti in parte no, che nonostante tutto “vedono” dei miglioramenti e chiedono di proseguire la cura. Trasmissioni televisive e articoli sulla stampa che accusano e chiamano in causa il ministro della salute Balduzzi che alla fine cede e con un decreto autorizza la prosecuzione delle cure (non autorizzate) per 32 pazienti senza speranza. Tra l’orrore e l’incredulità degli scienziati italiani.
La Fondazione Stamina continua a somministrare la propria terapia, non in base a motivazioni scientifiche, ma perché non ci sono altre alternative. Aggrappandosi quindi al Decreto Ministeriale del 2003, secondo cui quando ci fosse altre alternativa si possa ricorrere alle cure compassionevoli. Ma «anche tirare in ballo la terapia compassionevole, nel caso Stamina, viene fatto “a sproposito”» spiega il genetista Bruno Dallapiccola al convegno Telethon in corso a Riva del Garda «perché la terapia compassionevole riguarda terapie che sono in fase di sperimentazione, ma che non hanno ancora completato l’iter».
Volendo cercare, però, di casi ce ne sono tanti altri. Come Tullio Simoncini ex medico che cura il cancro con il bicarbonato «praticamente sconosciuto al grande pubblico ma con un grande seguito su internet e a quanto pare centinaia di pazienti nel mondo» spiega a Linkiesta Salvo Di Grazia, che continua nel suo blog: «Tullio Simoncini fu radiato dall’albo dei medici e condannato a quattro anni e quattro mesi totali di reclusione, su denuncia di parenti di alcuni suoi ex pazienti, per omicidio colposo (in un caso) e truffa (in due casi) in seguito alla morte di tre persone che si erano affidate a lui per curare la propria malattia tumorale». In pratica sosteneva che il cancro come altre malattie sono causate da un fungo, la Candida Albicans, e che con il bicarbonato, in un paio di giorni si risolve tutto. E a quanto pare qualcuno ci ha creduto davvero.
Fino ad arrivare ai “guaritori religiosi” e “popolari” che si trovano un po’ in tutte le regioni. Mamma Ebe, guaritrice e santona a capo di un’associazione mai riconosciuta dalla Chiesa, (Opera di Gesù Misericordioso) che operava a Carpineta in provincia di Pistoia. Dispensava preparati per migliorare la malattia (a base di farmaci: tranquillanti, farmaci psichiatrici e antiepilettici), praticava esorcismi, sedute di guarigione e benedizioni. Tutto in cambio di soldi. Fu denunciata e arrestata più volte fino alla condanna in primo grado del Tribunale di Forlì del 2008, (7 anni di reclusione per truffa ed esercizio abusivo della professione medica), e di nuovo nel 2010. Pochi giorni fa, per questa nuova vicenda, è arrivata la sentenza in Appello che l’ha assolta dall’accusa di truffa ma l’ha condannata per associazione per delinquere finalizzata all’esercizio abusivo della professione medica.
O ancora la famiglia Calisi di Arbatax, in Sardegna, capace di curare le malattie della pelle con la saliva. Dono trasmesso dal padre Girolamo al figlio Salvatore che racconta a La Nuova Sardegna: «Mio padre era conosciuto in tutta Italia e anche all’estero per il potere di riuscire là dove la medicina ufficiale falliva. Riusciva a curare il fuoco di Sant’Antonio, ustioni, porri, verruche, herpes, eritemi, psoriasi e i più volgari calli. Io non sono di certo ai suoi livelli, ma qualche malattia della pelle sto iniziando a curarla anch’io». Sempre gratis, e sempre con la saliva.