E al cinema, vacci tu! Enzo Jannacci sul grande schermo

Si è cimentato in tutte le forme di spettacolo, tranne la danza

Tutto, tranne la danza. Jannacci si è cimentato in tutte le forme di spettacolo. L’ostinazione alla facilità ha fatto sì che in questi giorni si associasse Enzo Jannacci semplicemente alla musica, o al limite alla medicina (attività che ha praticato tutt’altro che episodicamente, visto che è stato fino alla pensione medico condotto della mutua, cardiochirurgo, e che, già affermato, emigrò come medico in Usa e in Sudafrica nel team del professor Barnard). Ma Jannacci è stato anche talent-scout, direttore artistico di locali milanesi (il Derby, ed il Bolgia Umana), autore e regista teatrale, attore teatrale per sé stesso e raramente per gli altri (rifiutò anche una professionalizzazione diretto da Strehler, con cui scrisse anche canzoni). E poi la televisione. E il cinema.

Lo sguardo stralunato e col coraggio di chi è impaurito dalla vita sorge nel 1964, ne La vita agra che Carlo Lizzani trae dal romanzo di Luciano Bianciardi che di Jannacci è amico, estimatore, e autore: in un bar dove entra Ugo Tognazzi, Jannacci canta semplicemente L’ombrello di mio fratello, la sua prima canzone su un fratello che ruba gli ombrelli (non a caso, l’ultima canzone scritta e incisa, si chiamerà proprio Il ladro degli ombrelli, per chiudere un cerchio musicale durato mezzo secolo, in cui verrà citata anche Il cane coi capelli). Nelle sequenze, recita con lui Ugo Tognazzi che con Jannacci farà altri quattro film: L’Udienza (1972), Romanzo Popolare (1974), Scherzo del destino in agguato all’angolo come un brigante di strada (1983).

Come compositore, aveva però già scritto le musiche di tre cortometraggi di Bruno Bozzetto nei primi anni Sessanta: Alpha Omega, Il signor Rossi al mare, Il signor Rossi a sciare. Ma Jannacci è anche un cantante popolare, e come tutti i cantanti popolari di allora Canzonissima in tv e i musicarelli al cinema sono d’obbligo: così compare in Questi pazzi, pazzi italiani! (1965) e Quando dico che ti amo (1967): nel primo per altro canta L’Armando, canzone che scrisse con Dario Fo, anomala quanto la sua presenza in un musicarello. La maschera, scabra, magra, ossessionata e placida di Enzo Jannacci viene valorizzata da Mario Monicelli, che lo sceglie come deuteragonista de Il frigorifero (1970 episodio de Le coppie): recita il ruolo di un sardo a Torino, duettando con Monica Vitti che per pagare la rata dello status symbol del titolo, proverà a prostituirsi. Jannacci risulta credibile nonostante le origini milanesi (e non sia doppiato da altri attori), esprimendo con la sua faccia i dubbi e le timidezze del personaggio, e già che c’è, scrive anche la colonna sonora dell’episodio (in cui spesso però la Vitti canticchia una canzone di Orietta Berti, L’altalena).

Nel 1972 il suo film più importante è dovuto agli eccessi del periodo: David Warren è il protagonista scelto da Marco Ferreri per il suo film L’Udienza, ma, dopo due settimane di riprese, Warren, drogato e convinto di essere un uccello, prova a volare dalla finestra, non ci riesce, però casca e si fa molto male. Ferreri sceglie a sostituirlo Jannacci, nel suo unico film da attore protagonista. Il film è una drammatica satira del Potere e del Vaticano come potere.

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Ferreri avrebbe voluto fare un film tratto da Il Castello, ma non potendolo trasportare per una questione di diritti decide di fare un film kafkiano dove il castello è il Vaticano, così incombente e prossimo alle strade di Roma è così inquietantemente distante. Jannacci, con la sua recitazione in sottrazione è Amedeo, un ufficiale in congedo che cerca di avere invano un colloquio con il Papa, per un problema di cui gli dovrebbe parlare anche nel suo interesse.

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L’attesa si trasforma in un estremo Waiting for Godot che lo porterà ad avere un’ipotesi di amore (e un figlio) con una prostituta habitué degli ambienti vaticani, e a una serie di inquietanti emissari del sottobosco Vaticano, un principe che passa dai colloqui privilegiati coi cardinali all’addestramento di un corpo paramilitare a difesa della cristianità (sono gli anni dei rapporti tra Vaticano, ambienti neofascisti italiani, ed esponenti politici Usa per possibili colpi di stato anti-comunisti), cardinali con le clessidre a misurare i minuti a disposizione per gli altri, un oscuro e spregevole Commissario Diaz, modellato probabilmente su quella che doveva essere allora l’immagine di Luigi Calabresi (alla misteriosa defenestrazione di Pinelli si allude, con tragica ironia, nel film in vari punti).

Nei vari tentativi Amedeo-Jannacci finirà più volte in fermo, sarà rinchiuso in un convento dove si scontrano le correnti di politica clericale, e dove farà amicizia con Giovanni, un immaginario Giovanni XXIII trasfigurato e ritiratosi in disparte da una Chiesa dai tratti di una loggia massonica, che oblia le istanze del Vaticano II. Non a caso sarà la voce di Papa Giovanni l’unica forma di consolatoria speranza, per un Jannacci finito in una serie di peripezie che esprimeranno la violenza psicologica del potere, e il paradosso di una Chiesa apparentemente così prossima e realmente così lontana, che lo porteranno a morire, davanti alle colonne di San Pietro, al termine dell’iter burocratico che sembra essere il motore del Vaticano. Jannacci, spaesato, ellittico, olofrastico, interpreta molto bene lo spaesamento di un’anima in una realtà violenta e tetra. 

Con Monicelli torna a lavorare nel 1974 in Romanzo Popolare, come dialogista del film e compositore della colonna sonora. Inizia un’attività da autore cinematografico, forte della capacità a rendere lo slang milanese in linguaggio artistico e negli anni Settanta, scrive i dialoghi di altri film, alcuni minori (La moglie vergine, il cav. Costante Nicosa ovvero Dracula in Brianza), altri dignitosamente di cassetta (Cattivi Pensieri, Io tigro, tu tigri egli tigra), tutti in cui sarà solo sceneggiatore. Va aggiunto però che il cinema non è stato il linguaggio giusto per le sue scritture o le occasioni sono state ingiuste perché le sceneggiature non rimangono memorabili, a differenza delle recitazioni e delle musiche.

Tra il 1975 ed il 1978 scrive anche la colonna sonora di otto film, che spesso coinvolgono comici da lui lanciati (Teo Teocoli, Massimo Boldi, Cochi e Renato Pozzetto): per Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmuller ottiene la nomination all’Oscar nella categoria principale, della miglior colonna sonora. Saxophone (1978), esordio alla regia di Renato Pozzetto è anche il film in cui termina la carriera di sceneggiatore. Prosegue quella di attore negli anni Ottanta recitando, simbolicamente, il ruolo di un pagliaccio ne Il mondo nuovo (1982) di Ettore Scola, e lavora di nuovo con Lina Wertmuller, stavolta solo come attore, in Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante di strada (1983).

Tra gli anni Ottanta e Novanta al cinema torna quasi esclusivamente come compositore, spesso per film diretti da amici (Renato Pozzetto, Papà dice messa, Il volatore di aquiloni) o figli di amici (Ricky Tognazzi, Piccoli equivoci), mentre recita in Figurine (1997). Ma è ne La bellezza del somaro (2010) di Castellitto che torna ad essere valorizzato come attore: interpreta Armando (come il protagonista della canzone che scrisse con Dario Fo), ascetico e saggio vecchio, presentato e accolto come il fidanzato della figlia sedicenne di una coppia di borghesi in crisi e, nella satira di una borghesia di centrosinistra, sarà l’unico a capirci qualcosa di valori, morale, e di amore, nonostante la paradossale situazione sentimentale. Jannacci, già provato dalla vecchiaia, recita come ha sempre fatto, in sottrazione, con una recitazione olofrastica, di poche parole, ed uno sguardo sottile, come ad indicare una strada che si è collettivamente persa. Resta una recitazione scavata, in levare, anomala in una comicità cinematografica che si basa sull’addizione come quella italiana. Sarà il suo ultimo film.

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