Giovanna Sgarra ha 47 anni quando, dopo 13 anni di catena di montaggio, le viene chiesto di sedersi a un banco di scuola. Dopo una vita in fabbrica, iniziata in Puglia a fare tute da ginnastica e continuata a Milano nell’azienda tessile Hitman di Corsico, si ritrova in cassa integrazione. Gli accordi siglati dalle parti sociali con la Regione Lombardia obbligano lei e le colleghe operaie a frequentare un corso di formazione per poter ricevere l’integrazione salariale.
«Rimettersi a imparare a cinquant’anni… Sono sincera, all’inizio ero molto scoraggiata», commenta Giovanna in una chiacchierata telefonica alla fine dei sei mesi di corso, quando ormai la cassa integrazione si è trasformata in licenziamento collettivo di tutte le 53 operaie che lavoravano con lei. Ma la signora Sgarra non appare ora per nulla demoralizzata. «Per il momento mi godo un po’ la famiglia, poi dopo l’estate cercherò un lavoro. Ferma troppo a lungo non posso stare», dice tranquilla. «Il corso? Lo ricordo come un’esperienza piacevole. Ho scoperto la mia creatività».
Eppure, sei mesi fa Ennio Ripamonti, docente di Ricerca e intervento di comunità e presidente della Metodi srl, si è trovato davanti un «muro di rabbia e sfiducia», una resistenza forte a qualsiasi forma di apprendimento che le operaie della Hitman non gli hanno risparmiato. «Lavoratrici a cottimo senza una formazione professionale specifica, che andavano accompagnate in un percorso di conversione», ecco chi erano le tessitrici quando Ripamonti e gli psicologi della Metodi srl hanno iniziato a lavorarci. «Dovevamo motivare le signore a resistere alla difficoltà e a provare a costruirsi una nuova idea di sé, a reinventarsi. Niente di facile».
«Abbiamo affrontato paura, depressione, rancore». Ripamonti e i suoi provano a generare una reazione in ciascuna di loro. E lo fanno seguendo un metodo preciso, quello che gli psicologi chiamano coping, una delle fasi dei processi di resilienza. Si tratta di attivare le persone ad agire dopo un fatto traumatico, «rafforzando la loro capacità di far fronte alla difficoltà incontrata». Tecniche nate in contesti estremi, «nei lager o in guerra», spiega Ripamonti, e «ora utilizzate anche in esperienze di maggiore normalità sociale», in una quotidianità sempre più ricca di fatti traumatici, come la perdita del lavoro o la disoccupazione.
Gli psicologi iniziano a fare colloqui tra le signore. Chiedono loro di ripercorrere tutta la vita, anche le esperienze fatte da ragazze. Lo scopo, spiega, è di far emergere le loro risorse, tutte quelle che possiedono, dalle conoscenze tecniche alle semplici passioni, «anche quella per la cucina». «Solo così si può poi capire come aiutarle a ripartire», spiega Ripamonti, consapevole della difficoltà che quei colloqui comportano. «Spesso provochiamo dei terremoti esistenziali. “Chi sono io? Come faccio a imparare?” Si chiedono le persone, quasi tutte cinquantenni che aspettavano di arrivare alla pensione lavorando fino all’ultimo per la ditta in cui erano da 15, 16 anni».
(«All’inizio sembrava ci facessero l’interrogatorio, eravamo tutte titubanti», dice a proposito dei colloqui Giovanna. «È stato in quel momento che mi sono sentita scoraggiata», commenta.)
«In seguito», continua il professore, «Ci siamo chiesti cosa il mercato aveva da offrire. Insieme ad alcuni esperti del settore abbiamo scoperto una nuova attività, il fashion fatto con il restyling di abiti usati, in cui sono attive molte coperative. Dopo qualche analisi di mercato abbiamo capito che poteva fare al caso delle nostre operaie tessili. E così abbiamo iniziato con loro dei corsi di taglio e cucito e poi di restyling vero e proprio con docenti del settore, facendoci mandare gli abiti usati dalla Caritas». Da un cardigan un cappello, da un pantalone un gilet, da alcune tende un abito da sera: ne escono abiti che il professore ricorda come «bellissimi, soprattutto perché inaspettati», poi diventati mostra presso gli spazi della Caritas e presso la fiera Fa’ la cosa giusta.
«Abbiamo scoperto la nostra creatività, è stato bello», dice la Signora Sgarra, «E abbiamo fatto lavoro di gruppo». «Finalmente ci siamo conosciute tra di noi», aggiunge Angela Serra, 55 anni in fabbrica da quando ne aveva 37. «Alla catena di montaggio non c’era nemmeno il tempo di scambiare due parole», spiega. «Fossi rimasta in casa per tutti quei sei mesi mi sarebbe venuto l’esaurimento. Almeno lì eravamo tutte insieme», aggiunge ancora Serra, che del corso ricorda soprattutto la paura di molte colleghe ad imparare anche solo ad accendere il pc».
E se entrambe le signore si dicono consapevoli della difficoltà di trovare un nuovo lavoro, anche con le nuove competenze acquisite («più che altro un’infarinatura delle tecniche base»), nessuna di loro rimpiange il corso e ricorda come tutte alla fine fossero soddisfatte di quanto fatto.
«Il loro è un esempio di resilienza, hanno trasformato la cassa integrazione in un’occasione per ripartire, reinventarsi e scoprire nuove cose di sé. Lo sforzo principale è stato quello di convincerle che poteva accadere anche a 50 anni. Potevano ancora imparare qualcosa di nuovo. È sempre il principale scoglio, ma è da qui che inizia tutto».