Governo Monti? Ci ricorderemo solo delle sue donne

Quando la politica è rosa (anche se tra i "saggi" di Napolitano non c'è traccia)

«Il governo non vede l’ora di essere sollevato da questo incarico». Mario Monti, a poco più di anno dal suo insediamento, sembra non poterne più dei muri di Palazzo Chigi. Soprattutto dopo la burrascosa uscita di scena di Giulio Maria Terzi. Che forse in scena non c’era mai entrato. Ma caso marò a parte, che ha reso famoso il (quasi) sconosciuto ex ministro degli Esteri, alla vigilia della fine, questo governo sembra mancare di grandi personalità. Donne a parte. Più che di frontman si dovrebbe parlare di frontwoman. Nello specifico: Elsa Fornero al Lavoro, Paola Severino alla Giustizia e Annamaria Cancellieri agli Interni. Senza sbirciare sulla pagina del governo, qualcuno ricorda qual è il dicastero di Enzo Moavero? Chi ha mai sentito parlare di Gnudi? Chi, si è fatto mai rapire dalla verve di Clini, Catania o Balduzzi? E che fine hanno fatto Passera, Grilli e Riccardi? Oltre il capofamiglia Monti, i veri rappresentanti, nel bene o nel male, di questo governo, sono le donne.

La prima è certamente lei, la più discussa, fotografata, filmata dell’esecutivo: Elsa Fornero. La ministra, da buona professoressa, appena arrivata a Roma ha da subito precisato di non volere il «la» davanti al suo nome. Da San Carlo Canavese, in provincia di Torino, è un po’ come il tartufo: o lo ami o lo odi. E lei, a dir la verità, è più odiata che amata. Impeccabile nel suo caschetto immobile, non rinuncia mai alla giacca. A parte in qualche afosa giornata di agosto. Divise d’ordinanza in un ambiente di uomini. Come quelli che frequentò quando era vicepresidente del consiglio di sorveglianza di Intesa San Paolo, o quando sedeva nella commissione di esperti valutatori della Banca mondiale. 

A lei l’amico Mario affida la peggiore delle gatte da pelare in un momento di crisi: lavoro, politiche sociali e pari opportunità. Seconda donna, dopo Tina Anselmi, a presiedere un ministero così gravoso. E per questo le tocca l’arduo destino di essere il ministro più in vista della squadra dei tecnici. Piange quando presenta alla stampa la severa riforma delle pensioni (sorbendosi pure le critiche del nuovo guru femminista Emma Marrone), “sbaglia” sul vero numero degli esodati (per il ministro sono 65mila, per i vertici Inps 400mila). Scomoda i costituzionalisti (e non solo) la sua intervista al Wall Street Journal quando dice: «People’s attitudes have to change. Work isn’t a right; it has to be earned, including through sacrifice». Il lavoro non è un diritto, tradussero in tanti. Ma lei precisò: «Intendevo il posto di lavoro».

Poco dopo eccola inciampare di nuovo su un’altra espressione inglese, choosy. Letteralmente: “schizzonosi”, “esigenti”. Ai giovani, Fornero (senza «la») lancia un appello: quando si tratta di lavoro, non siate choosy, all’inizio prendete quello che c’è. Una parola, un polverone. Nella Repubblica italiana fondata sul lavoro, quella dell’articolo 18 e della Cgil camussiana, la professoressa della provincia piemontese nota per le frequenti bocciature, moglie a sua volta di un professore (Mario Deaglio), ha dato consigli e lezioni di previdenza ed economia. Senza pensarci neanche troppo, puntando la sua matitina ben temperata sugli italiani. Ogni sua frase è diventata un titolo di giornale, un tweet, un post. Lei, che in politica c’era già stata come consigliere comunale di Torino, ha calcato le poltrone dei talk show, da Porta a porta a Ballarò. Ma i giornalisti non li ha mai amati. Prima ha invitato i cronisti ad allontanarsi dalla sala nella quale avrebbe dovuto intervenire a Torino. Poi l’abbiamo vista fuggire dall’assalto di una troupe delle Iene che le avrebbe impedito di entrare nella sala in cui il collega Balduzzi teneva una conferenza stampa sull’amianto. 

In ogni caso, a lei resta legato il nome della riforma delle riforme di questo governo: quella sul lavoro. E molti, nel bene o nel male, non la dimenticheranno. Lei invece, Elsa Fornero, in barba a chi scommetteva sulla sua permanenza in politica, questa esperienza sembra volerla dimenticare al più presto e dice: «Mi avete avvilita. Vado in Germania. Da lì potrò riflettere». E tutti pronti a rispondere: «Buon viaggio e rimanga lì per sempre».

La più papabile delle tre donne a restare in politica è invece la collega del Viminale, Annamaria Cancellieri. Possibile primo presidente della Repubblica donna della storia italiana, dicono in tanti in questi giorni di caos, o anche a capo di un governo fotocopia se non si dovessero trovare vie d’uscita all’impasse politica. Nell’amministrazione del ministero dell’Interno in realtà la Cancellieri (lei del «la» non si è mai lamentata) c’era già entrata nel 1972, a soli 29 anni, dopo la laurea in Scienze politiche. Diventata prefetto nel 1993, si sposta di città in città:  Vicenza, Bergamo, Brescia, Catania, Genova, Parma e Bologna. A Catania, deve affrontare il delicato periodo successivo all’uccisione dell’ispettore Filippo Raciti, morto durante gli scontri con gli ultrà dopo il derby siciliano Catania-Palermo. 

Annamaria Cancellieri nella sua vita ha commissariato di tutto. In Sicilia restaper presiedere la commissione regionale del piano rifiuti prima, e come commissario del Teatro Bellini di Catania poi. Incarico, questo, affidatole direttamente dall’ex governatore siciliano Raffaele Lombardo. Poi eccola di nuovo al Nord, a Bologna, sempre come commissario, per traghettare verso le nuove elezioni il Comune rimasto senza sindaco dopo il “Cinziagate” di Del Bono. E infine a Parma, sempre da commissario, prima di esser chiamata alla guida del Viminale. Prima di lei solo Rosa Russo Iervolino aveva occupato la stessa poltrona. 

La lady di ferro all’italiana, l’ha chiamata qualcuno. Una donna delle istituzioni, autorevole e autoritaria. Oltre che alla Tatcher, in tanti la accomunano alla Cancelliera Angela Merkel, forse per le sue sembianze teutoniche. Romana di Roma con una infanzia a Tripoli, figlia di rimpatriati italiani, qualche giorno dopo il suo insediamento riceve direttamente in Viminale la maglia numero dieci del capitano giallorosso Francesco Totti. Ma quello che più la caratterizza, a parte l’immancabile doppio o triplo giro di perle (lungo o corto, seconda delle occasioni), è la sua voce. Bassa, diaframmatica, nasale, rauca. C’è chi, come Giancarlo Perna sul Giornale, l’ha definita «profonda come il quieto ronfare di un orso». Ma anche chi fa notare l’assonanza tra la voce della ministra prefetto e quella dell’attrice napoletana Tina Pica, soprattutto nelle sue ultime apparizioni sul grande schermo. 

Nel corso della sua permanenza nei palazzi romani, la ministra ne ha viste di cotte e di crude. Dallo scioglimento del Comune di Reggio Calabria per «contiguità» con la criminalità organizzata, alla richiesta di dimissioni del vicecapo della Polizia di Stato Nicola Izzo, dopo un esposto anonimo riguardo la gestione poco trasparente degli appalti da parte di alcuni funzionari del ministero dell’Interno. Lo scorso agosto, dopo due anni di assenza del governo, lei ha partecipato alla commemorazione della strage di Bologna. Ultima questione delicata: il sit-in organizzato dal sindacato di polizia sotto l’ufficio della madre di Federico Aldrovandi a Ferrara.E qui ha fatto un po’ di confusione: prima ha annunciato che non ci sarebbero state sanzioni per gli agenti, poi ha cambiato idea, annuncindo ispezioni per identificare i responsabili. E quando il Professor Monti è “salito” in politica, ha rifiutato di aderire alla Scelta civica e di candidarsi alle elezioni politiche. Così come aveva già fatto nel 2011 per la corsa alla poltrona di sindaco di Bologna. 

Sposata con il farmacista catanese Nuccio Peluso, pure lui figlio di una coppia di rimpatriati italiani dalla Libia, in questi mesi è caduta anche lei come la ministra del Lavoro nella trappola delle dichiarazioni in tema di lavoro: «Noi italiani siamo fermi al posto fisso nella stessa città di fianco a mamma e papà», ha detto. Una frase «infelice», si corregge subito lei. Anche perché il di Cancellieri figlio, nel dimettersi dopo quattordici mesi dall’incarico di direttore generale della Fondiaria Sai, lo scorso ottobre ha ottenuto una liquidazione di tre milioni e seicentomila euro. Non foss’altro che proprio in quei mesi il governo dei tecnici chiedeva agli italiani i peggiori sacrifici. In ogni caso, non serve di certo la liquidazione di Piergiorgio Peluso per rimpolpare le casse del ministro. Basta guardare la sua situazione patrimoniale sul sito del governo, in cui saltano all’occhio diversi appartamenti tra Roma, Milano e Siracusa, oltre che box, negozi e varie proprietà agricole. 

Quanto a ricchezze e proprietà, però, la titolare del Viminale è stata superata dall’ultima della triade femminile, Paola Severino, ministro della Giustizia, prima donna in Italia a ricoprire questo ruolo. La Guardasigilli nella scheda per la trasparenza del governo ha dichiarato per il 2011 un ammontare dei redditi pari a 7 milioni di euro, sorpassando tutti gli altri colleghi ministri. 

Napoletana, avvocato penalista e consulente di società, banche e associazioni di categoria, conosceva già molto bene il funzionamento della macchina legislativa, avendo partecipato alle commissioni ministeriali per la riforma della legislazione penale e processuale. Ex vice Rettore della Luiss, è allieva di Giovanni Maria Flick, ministro della Giustizia nel governo Prodi. Salda cultura cattolica, per un periodo si è anche parlato di lei come candidata alla vicepresidenza del Csm in quota Udc. Salvo poi ritirare la sua candidatura quando capisce che per una serie di veti incrociati la sua promozione sarebbe stata ostacolata. 

Il suo palmarès vanta una serie di primati. Prima donna professore ordinario di diritto penale, nel 1987. Prima donna vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura militare, nel 1997. Poi prima donna contribuente d’Italia, nel 1998, con 3,3 miliardi di lire.

Nella lista dei suoi assistiti compaiono grandi nomi dalle grandi parcelle. Tra le società-colosso nel suo portafogli, basta ricordarne alcune: Eni, Enel, Telecom Italia, ma anche la Rai. La ministra, insomma, è abituata da tempo a muoversi nei salotti che contano.  L’avvocato Severino ha difeso il presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi, Romano Prodi nel processo sulla vendita della Cirio, Salvatore Buscemi nel processo per la strage di via d’Amelio, il legale della Fininvest Giovanni Acampora nel processo Imi-Sir, Francesco Gaetano Caltagirone nell’inchiesta di Perugia su Enimont, Cesare Geronzi per il crac della Cirio, ma anche l’ex segretario generale del Quirinale Gaetano Gifuni nell’indagine sui fondi per la gestione della tenuta di Castelporziano. 

E alla fine al Quirinale lei ci è salita per giurare da ministro. Non senza nascondere una certa emozione. In quell’occasione al presidente della Repubblica lei ha stretto la mano sì, ma quella sinistra. Il braccio destro le è stato amputato a causa di una brutta malattia. «So che vuol dire avere a che fare con chi ti guarda e ti chiede: che cosa ha fatto al braccio? O dice: mi farei tagliare un braccio per riuscire a …, oppure ti fissa e non ti toglie gli occhi di dosso», ha raccontato nel corso della presentazione di un libro di Fiamma Satta sulla disabilità. «Ma chi deve superare un handicap affronta la vita con lo spirito di dire: devo fare tutto, posso fare tutto. Io senza un braccio ho anche giocato a tennis». 

La sua promessa, all’uscita dal Quirinale, con tanto di nipotini al seguito, era stata: «La mia priorità sarà il carcere». Detto, fatto. Il decreto “Svuota carceri” porta il suo nome, ma forse si è rivelato troppo leggero per poter dare ossigeno alle celle delle sovraffollate carceri italiane. Un problema che la ministra ha preso molto a cuore, visto che a un certo punto ha anche proposto la riapertura delle carceri di Pianosa e Asinara per ospitare i detenuti in surplus. Non solo: dopo il terremoto in Emilia del maggio 2012 ha chiesto ai carcerati di partecipare alla ricostruzione delle città distrutte. Chiusura perfetta della sua esperienza di ministro, come lei ha dichiarato: aver assistito alla messa lavanda dei piedi del giovedì santo officiata da Papa Francesco tra le mura del carcere minorile di Casal del Marmo a Roma.  

Criticata per la leggerezza del suo ddl anticorruzione, per arrivare all’approvazione del provvedimento con la fiducia la ministra ha cucito e ricucito accordi, trattative, compromessi con le diverse forze politiche del Parlamento. Mostrando grandi capacità diplomatiche. Per poi minacciare quando la situazione si fa dura: «Se non c’è l’approvazione, il governo torna a casa». Alla fine, ce la fa. 

Nel corso del suo ministero, la ministra-avvocato ha fatto arrabbiare pure i suoi ex colleghi con l’annuncio della abolizione delle tariffe. Suo anche il decreto “Liste pulite”, che sbarra la strada all’ingresso in Parlamento e nel governo ai condannati in via definitiva per pene superiori ai due anni. Ultima, e forse la più problematica, la decisione del riordino delle circoscrizioni giudiziarie.

Lei, garantista da sempre, ha chiesto al Csm un procedimento disciplinare contro Antonio Ingroia per le parole dell’ex pm contro Pietro Grasso nel corso della campagna elettorale. Il ministro, però, ha mancato un appuntamento: la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari prevista entro la fine di marzo 2013. 

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