«Il nostro design vende meno ma è ancora il più bello»

Anche Ikea ha imitato lo stile Italiano:

È una festa per Milano e per l’Italia intera. Il Salone internazionale del mobile di Milano dal 1961 raccoglie appassionati e imprenditori del design nei grandi spazi della fiera milanese. Quest’anno gli espositori presenti sono più di 1.400. Tra le novità, il divano nuvola e il letto nido, o anche le candele magnetiche a led e la cucina domotica. Molte le rivisitazioni dei maestri del passato, da Gio Ponti ad Achille e Piergiacomo Castiglioni. Ma come sta oggi il design made in Italy? Come stanno quei marchi che negli anni Cinquanta e Sessanta hanno portato l’Italia nei salotti di tutto il mondo? Risponde Gabriella Lojacono, professore associato di Economia aziendale dell’Università Bocconi e autrice di pubblicazioni come Le imprese del sistema arredamento: strategie di design, prodotto e distribuzione I distretti del mobile: Brianza Comasca e Milanese: Livenza e Quartier Del Piave.

Professoressa, qual è lo stato di salute del design del mobile italiano?
Ho una visione abbastanza ottimistica. Certo, è un settore che soffre la concorrenza dei Paesi low cost, che puntano sulle imitazioni dei prodotti italiani a scarso contenuto tecnologico e fanno molta concorrenza. L’Italia è slittata al terzo posto dopo la Cina e la Germania per la produzione nel settore del mobile, ma questa discesa non fa che coincidere con la perdita del 5 per cento nel settore dell’imbottito, vale a dire poltrone e divani. Parliamo di prodotti e aziende a scarso contenuto tecnologico, scarsamente difendibili. In questo ambito si gioca la competizione sui costi, soprattutto da parte di Paesi come la Cina o la Polonia che stanno aumentando di anno in anno i volumi dell’export. Sono prodotti facili da realizzare. Questo non avviene però con prodotti come le cucine, settore in cui siamo ancora molto forti. 

In che modo la crisi economica ha colpito il settore?
Credo che questo debba essere un momento di riflessione per i marchi del design italiano. C’è una selezione naturale, è nella natura dell’economia: su 36mila aziende quelle che riescono a restare sul mercato ci restano, quelle poco competitive no. Avviene in tutti i settori. Le aziende che restano devono riflettere su come operare al meglio in uno scenario in cui le regole del gioco stanno cambiando. L’imprenditore italiano ha sempre ricercato le possibilità di sopravvivenza e lo farà anche adesso. 

Quali sono le strategie che i marchi italiani stanno mettendo in atto?
Il punto è che l’Italia non sta crescendo in termini di retail (vendita al pubblico, ndr). Così anche grandi aziende come Scavolini, ad esempio, stanno diversficando e ampliando la gamma dei prodotti, mettendo in atto una strategia di internazionalizzazione. Dal 2002 al 2011 il tasso medio di crescita in un anno dell’export per l’Italia è stato più 4 per cento, per la Cina più 22 per cento, per la Germania più 11 per cento, per la Polonia più 14 per cento. La quota di mercato totale del mondo è del 40% per la Cina, 12% per la Germania, 10% per l’Italia, 7% per la Polonia. Come si vede, lo scarto tra Italia e Polonia è minimo e si ridurrà nei prossimi anni. In un momento in cui il mercato italiano sta implodendo, le aziende italiane devono aprirsi a nuovi mercati, rischiare e innovare. 

In quali Paesi stranieri stanno puntando i nostri marchi?
Le nuove mete sono i Paesi africani, come l’Angola, non toccati da nessun altro competitor. In questi posti si mettono in atto strategie diverse, come la proposta di un blocco cucina contenente già gli elettrodomestici. È un servizio in più che viene offerto in posti dove il retail dell’elettrodomestico magari non è molto diffuso. È quello che sta facendo Scavolini, ad esempio.

Camera da letto di Gio Ponti & Piero Fornasetti

Cosa offrono ancora i marchi italiani rispetto ai prodotti low cost delle cosiddette economie emergenti?
I produttori low cost non hanno grande organizzazione, non sono in grado di sostenere commesse chiavi in mano. I loro prodotti non sono così versatili. Le aziende italiane magari in questo momento non sono fortissime nel retail, ma sono comunque in grado di sostenere forniture e subforniture. Ma soprattutto i marchi italiani mantengono ancora una forte caratterizzazione estetica, oltre che forte specializzazione tecnologica. Marchi come Scavolini o Kartell restano forti. Abbiamo perso sui prodotti di bassa gamma, ma non sui prodotti innovativi. Non facciamo più volumi, ma c’è ancora un grande valore dietro i nostri prodotti. Il punto è che esportiamo tanto con aziende relativamente piccole. Ci sono aziende di nicchia come Boffi che esportano tantissimo. L’amministratore delegato dice: “Io non voglio crescere in quantità. Voglio continuare a far bene il mio lavoro”. 

Cos’è successo nel mercato italiano con l’arrivo di Ikea? In un momento di crisi il consumatore italiano tende a risparmiare comprando Ikea, non Kartell.
Io lo vedrei in un’altra prospettiva: l’Ikea ha tratto molti vantaggi operando nel mercato Italiano, modificando il suo stile. Se si fa caso alle linee Ikea, prima erano molto standard, scandinave, lineari. Ora, viste le esigenze del mercato in cui opera, l’azienda ha messo in atto forte innovazione nei format e nella qualità del prodotto, prendendo molto dal design italiano. E in più ha compreso che era necessario aumentare l’acquisto di prodotto in Italia, rendendosi conto che i fornitori low cost e i resi che da questi derivavano costavano troppo. Il design italiano ha modificato quello scandinavo dell’Ikea in tutte le parti del mondo. A Ikea fa bene essere presente sul nostro mercato. Così come i capannoni Ikea sono sempre un ottimo generatore di traffico per i negozi circostanti. E per quanto riguarda gli acquisti, le case come l’abbigliamento sono un po’ come un fritto misto: magari come lampada compro l’arco di Castiglioni, per la cucina scelgo Dada e il primo divano lo compro da Ikea. La stessa cosa avviene con l’abbigliamento: metto una camicia di Zara e le scarpe Prada. 

E sul fronte lavoratori? Perché i giovani designer italiani faticano a lavorare in un mercato così dinamico?
Qui forse c’è una debolezza del sistema. I grandi marchi preferiscono puntare sul confronto tra creatività diverse e per questo tendono ad assumere anche professionalità straniere. Chi saranno le nuove star del design italiano non lo so. Le aziende stesse si vogliono nutrire di creatività internazionale, soprattutto se puntano a internazionalizzare la produzione. Magari assumoni designer da Cina e Giappone, per sfruttare le sensibilità dei Paesi meta e far sì che già all’origine il prodotto abbia delle caratteristiche internazionali. 

In che modo diffondiamo il bello e l’estetica italiana? Esistono musei che lo valorizzano gli occhi dei turisti?
Non esistono grandi musei, a parte l’esposizione permanente della Triennale ad esempio. Ci sono i musei aziendali, come quelli di Kartell e Alessi, che sono un po’ dei marchi icona. Ma farsi il museo implica grandi investimenti e strutture che non tutte le aziende si possono permettere. È per questo che i musei aziendali sono sempre di meno. 

Che importanza hanno le fiere come il Salone internazionale del mobile?
Il Salone mantiene ancora grande importanza. Le altre fiere no. Il Salone rimane il punto di riferimento per tutto l’anno. Eventi come questi obbligano le aziende a fare continua innovazione. Ci sono molte aziende che tornano in fiera. In un momento come questo c’è più attenzione per un evento come questo. È un’opportunità fondamentale per vedere i clienti, programmare le visite aziendali per tutto l’anno. 

E i nostri distretti del mobile come stanno?
In Brianza, nonostante tutte le difficoltà, c’è una vitalità che continua a esistere e che punta sulle eccellenze. Così come la zona friulana o quella del pesarese. La Murgia barese invece ha perso un po’ di smalto. Quello che conta nel distretto è l’azienda guida, che dà il buon esempio all’indotto. Se si spegne quella, si spegne l’indotto. 

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