“Il rancore sociale c’è, ma Preiti è un fatto isolato”

Parla il sociologo Mauro Magatti

Gli spari di Luigi Preiti, oltre alla condanna per la gravità del gesto, impongono riflessioni sulla tenuta sociale del Paese. In molti, dissociandosi dalla violenza, hanno dichiarato di comprendere le sue motivazioni e la sua rabbia. In un’epoca di rancore diffuso si tratta di segnali inquietanti. Secondo Mauro Magatti, sociologo ed economista, professore ordinario all’Università Cattolica di Milano, occorre considerare il fatto con cautela: meglio evitare «di usare la sociologia per spiegare azioni singole, perché ogni vicenda particolare ha una sua ricostruzione propria, con cause che sono solo personali». Detto questo, «prendendo spunto dalla vicenda si possono fare alcune riflessioni».

Quali?
Innanzitutto è vero che c’è un evidente e diffuso disagio sociale. Lo conosciamo, purtroppo, e si manifesta in varie forme, come i suicidi degli ultimi mesi. Ma il punto è un altro: non produce un’azione collettiva. Solo con Grillo si è incanalata la protesta in modo condiviso, ma non è sufficiente. La maggior parte delle persone vive la crisi in modo personale e la mantiene nella propria esperienza: la rete, in questo senso, non fa altro che assommare tutte queste individualità, ma non le fonde insieme. I problemi restano ancora vivi a livello personale.

Non si riesce a trovare un modo per sfogarli.
No, e l’esito può essere quello che è successo di fronte a Montecitorio, che è molto simile a quello che avviene in America. Cosa fanno? Massimizzano il loro urlo costruendo un evento mediatico. Preiti lo confessa in modo esplicito: voleva fare una cosa eclatante. L’obiettivo non era colpire qualcosa, ma urlare più forte: è una cosa tipica del mondo contemporaneo. L’opinione pubblica si serve di questo mezzo per rendere pubblico il proprio dolore.

Non ci sono altri modi per esternare la protesta?
Oggi il conflitto sociale classico si è molto affievolito. Prevalgono forme di reazione individuale e istantanea, scoppi di rabbia improvvisa e incontenibile. Il problema è che la protesta ha perso la capacità di formare un discorso collettivo, che la incanali e la strutturi, ma rimane solo allo stato di rabbia pura: si colpisce perché il disagio è forte, ma gli obiettivi sono vaghi. Non c’è comunicazione profonda, né un pensiero politico.

Ma i bersagli, però, sono chiari: la classe politica.
È un discorso complesso. La nostra classe politica, finora, ha dimostrato di avere forti responsabilità per lo stato economico del paese, ma questo non giustifica in nessun modo l’uso della violenza. Va aggiunto che esistono movimenti, come quello di Grillo, ma anche giornali e trasmissioni che hanno radicalizzato l’odio fino a costruire un capro espiatorio. Ecco, dal riconoscere la gravità delle responsabilità della politica fino a farne un bersaglio contro cui sfogare la propria ira è un passaggio complesso e delicato, ma è quello che è successo. Dire “è tutta colpa della politica” è una semplificazione falsa, ma appartiene proprio al meccanismo del capro espiatorio, proprio come lo aveva definito Réné Girard. È un modo di far denuncia che tradisce il senso stesso della denuncia, cioè il miglioramento delle cose.

A questo proposito, le parole pronunciate dal presidente della Camera Laura Boldrini sono apparse, a molti, ambigue, perché ha detto che «la crisi trasforma le vittime in carnefici».
In generale, consiglierei ai politici, soprattutto di questi tempi, meno parole e più fatti. Credo comunque che il presidente della Camera volesse dire quello che penso anche io. Non si deve fare generalizzazioni sociologiche su fatti singoli. La cosa non elide la condanna per il singolo caso, ma evitando di confondere i piani, va detto che è evidente che un certo contesto può porre le condizioni adatte per certi tipi di protesta. Ma ora le istituzioni si sono rinnovate. Meglio che vadano avanti con i fatti che con le parole.

Ci sono stati alcuni cambiamenti, anche significativi, da parte del Palazzo. Per paradosso, la trasformazione in meglio della classe politica potrebbe privare la rabbia sociale di un capro espiatorio e, di conseguenza, di un modo per incanalarla.
Non credo. Il cammino, come il taglio agli stipendi, è quello giusto. Ma occorrono più fatti e molto concreti. Per gran parte del paese, ormai abituata a non credere alle parole dei poltici, non c’è spazio per fare distinzioni. I politici sono tutti uguali, anche se non è vero. Si fa di tutta un’erba un fascio. Per cui raccomanderei ai politici più parsimonia di parole, come ho già detto, e più fatti.  

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