Come è ben noto, l’Europa ha fissato al 60% del Prodotto Interno Lordo (Pil) il tetto del debito pubblico degli stati membri. E a chi (come l’Italia) sfora questo numero è stato chiesto un percorso di convergenza verso la magica cifra del 60%.
È forse meno noto il fatto che la scelta europea del 60% non fu il risultato di un calcolo di teoria economica, ma una scelta tutta politica.
Nel 2010, tuttavia, spuntò uno studio di due economisti di Harvard che sosteneva di aver trovato la soglia oltre la quale il debito arresta la crescita. Il debito pubblico, secondo Reinhart e Rogoff, non sembra influenzare la crescita economica finché resta al di sotto del 90% del Pil. Ma una volta raggiunta e superata quella soglia, l’economia non cresce più.
Dunque il numero magico esiste ed è il 90%? In molti hanno dato credito a questo risultato. In Europa, lo ha esplicitamente utilizzato il vicepresidente della Commissione Europea Olli Rehn qualche settimana fa per escludere che esistano alternative credibili alle politiche di austerità.
Ora, però, tre ricercatori dell’University of Massachusetts hanno trovato due problemi di metodo (l’esclusione di alcuni dati dal computo e il metodo di calcolo delle medie ) e un errore: una banale e imbarazzante svista nell’impostazione di un calcolo in una tabella excel dove le celle evidenziate non sono corrette.
Fatte le revisioni del caso, Herndon, Ash e Pollin mostrano che l’effetto del superamento della soglia del 90% scompare: debito e crescita sono debolmente correlati, e a ciascun livello di debito pubblico corrisponde una varietà di possibili tassi di crescita. Troppo poco per concludere che il 90% sia una sorta di limite invalicabile.
Reinhart e Rogoff hanno ammesso l’errore ma difendono il messaggio di fondo del loro lavoro e affermano che se è vero che della soglia critica del 90% non siamo certi, resta il fatto che più elevato è il debito pubblico minore è la crescita.
Riaffermando questo principio, gli autori sembrano non voler prendere in considerazione la spiegazione più plausibile della correlazione (se c’è) tra debito e crescita.
Si tratta di un semplice meccanismo ben noto a chi mastica un po’ di macroeconomia. Quando siamo in recessione, i redditi imponibili si riducono e calano le entrate dello stato, proprio mentre la disoccupazione fa crescere le spese per gli ammortizzatori sociali. Cresce dunque il fabbisogno dello stato e il debito sale. Si tratta di un ammorbidimento automatico delle conseguenze della recessione che aiuta l’economia a trovare il punto di svolta per ripartire.
Le politiche di austerità fanno esattamente il contrario. Basta guardare all’esperimento fatto sulla pelle degli europei dal 2010 in poi. Quando le entrate fiscali calano e gli ammortizzatori sociali richiedono più risorse, si introducono nuove tasse e la caduta del reddito non vede la fine. Invece di toccare il fondo, continuiamo a scavare.
Non credo che aver segnalato questi errori cambierà le radicate (ed errate) convinzioni che per far crescere l’economia occorra in primo luogo ridurre il fabbisogno dello stato. Lo studio di Reinhart e Rogoff ha limiti anche maggiori di quelli segnalati dai tre ricercatori, come ad esempio il fatto di mettere nello stesso calderone paesi con cambi flessibili, cambi fissi, e addirittura col sistema aureo. Ma non sarà l’ennesimo studio empirico sugli effetti del debito a fermare l’austerità. Occorre invece che una nuova leadership politica, convinta che la piena occupazione meriti la priorità rispetto alle cifre del debito pubblico, si faccia finalmente avanti.
*Docente di economia monetaria al Franklin College Switzerland