Nell’ultimo anno in Cina il consumo di vino è cresciuto del 9%: è la quinta nazione consumatirice al mondo. Ma se si guardano le cifre da vicino, ci si accorge che i consumi si avvicinano a quelli europei soltanto nelle grandi città, che sono anche le più ricche. Qui, in media, ogni abitante beve 35 litri di vino l’anno (gli italiani ne bevono 37). Nel resto del Paese si beve un litro scarso a testa in 365 giorni.
Partendo da questo dato, è facile comprendere che bere vino in Cina è diventato uno status symbol. Bordeaux e Brunello come Armani e Valentino. I nuovi ricchi cinesi adorano il lusso e sono scarsi in educazione eno-gastronomica. Ma i vini rossi, soprattutto grands crus francesi, sono sinonimo di benessere. E per queste bottiglie sono disposti a spendere, e tanto. Non a caso Hong Kong è diventata la piazza principale per le aste internazionali di vini di qualità.
Il settore cresce al ritmo del 30% dal 2009. Secondo le previsioni, la tendenza rimarrà invariata fino al 2017. La maggior parte del consumo interessa prodotti locali e le importazioni aumentano in media del 53% alla’anno. A sbaragliare la concorrenza internazionale sono i cugini d’oltralpe: ogni 100 bottiglie importate 55 sono francesi, 12 australiane e soltanto 8 italiane.
«Siamo arrivati tardi», dice Cesare Veneri, segretario generale della Camera di commercio di Verona, «le bottiglie degli chateau della Borgogna sono presenti in Cina da un decennio, e gli australiani hanno il vantaggio della posizione geografica, ma c’è ancora un grosso margine». Proprio al Vinitaly, in questi giorni, è stata ribadita l’importanza di politiche mirate e interventi da parte del governo, cosa su cui puntano da tempo in Francia.
I problemi principali per entrare in questo mercato sono la normativa cinese, la tutela del marchio e del credito. Già, perché si ripete con insistenza che i cosiddetti Bric, Brasile, Russia, India e soprattutto Cina rappresentano un potenziale bacino di miliardi di nuovi consumatori da non farsi sfuggire, dimenticando però le difficoltà di entrare nel mercato.
Trattandosi al momento di una nicchia, è sull’alta gamma che va aggredito il mercato. Eppure, raccontano alcuni produttori presenti a Verona, i contatti con la Cina riguardano soprattutto la grande distribuzione. Vengono richiesti enormi quantitativi a costi bassissimi, massimo due euro a bottiglia, e la maggior parte delle volte la trattativa non va a buon fine. Succede anche che al primo contatto non segua il secondo, perché i prezzi vengono arbitrariamente gonfiati, con dei margini di guadagno esagerati per i distributori.
Altro scoglio è la concorrenza francese: investendo moltissimo nel marketing del prodotto sono riusciti a far accreditare le loro etichette come icone di alta qualità. Per i vini più pregiati è il modello del brokeraggio con servizio personalizzato che funziona. Il mass marketing è molto costoso e non altrettanto efficace: soltanto i consumatori più sprovveduti vanno nei negozi accettando il rischio di acquistare un prodotto dalla provenienza incerta.
La contraffazione è l’altro grande problema. Se la catena distributiva non è più che affidabile, i carichi di merce non fanno neanche in tempo a essere scaricati dalle navi che le bottiglie vengono rubate e riprodotte. I produttori italiani lo sanno e la preoccupazione si aggiunge a quella del recupero crediti, sempre più difficile, secondo i dati di Atradius collections, a fronte di una rischiosità dei pagamenti in peggioramento e procedure legislative particolarmente complesse.
Un imprenditore toscano, che preferisce restare anonimo, racconta che l’intuizione di distribuire il suo prodotto in Cina l’ebbe quando scoppiò l’emergenza sanitaria dell’influenza aviaria. Correva l’anno 2003, un container con migliaia di bottiglie restò bloccato nel porto di Guanzhou per mesi, la merce mai pagata. Stessa cosa capitò nel 2005 a un carico di Freschello, della Collis Veneto Wine, oggi il vino italiano più venduto in Cina: la società che aveva richiesto la spedizione sparì nel nulla e le 2000 casse rimasero bloccate alla dogana. In quel caso andò meglio grazie all’interprete cinese Cin Xu, che aprì una società per la commercializzazione del vino italiano e si occupò di vendere quelle prime 20mila bottiglie. Il partner giusto, in un mercato così complesso, è fondamentale. Lo conferma Nicolò Incisa della Rocchetta, che in Cina vende il suo Sassicaia da 12 anni e nel 2012 ha aumentato il fatturato del 30 per cento.
Secondo Kim Stevie, coordinatrice di Vinitaly International, le cantine italiane devono dare più importanza a città di seconda e terza fascia e puntare anche sull’e-commerce. Ecco perché, oltre alla delegazione del ministero del Commercio, da Pechino sono sbarcati anche i rappresentanti di Alibaba e YesMyWine, le principali società di vendita via internet: si potrebbero vendere 120mila bottiglie al giorno dicono. Inoltre, grazie alla nuova piattaforma digitale Vinitaly Wine Club, gli abbonati potranno acquistare vini italiani e conoscerne le caratteristiche attraverso gli spazi editoriali dedicati. Buona vetrina per i piccoli produttori, ma che non risolve il problema della frammentazione, altro limite dell’offerta italiana. «I francesi si muovono in un unico blocco, puntano sul Bordeaux non sugli chateau che lo producono, anche l’Italia dovrebbe muoversi in questo senso» sottolinea Stevie, «per questo a Verona i principali interlocutori dei cinesi sono stati i consorzi e i gruppi di produttori».