«Resilienza è rimbalzare», dice Elena Malaguti, pedagogista e psicoterapeuta, e ricercatrice dell’Università di Bologna, al lavoro fin dagli anni Novanta in contesti di guerra – dalla Bosnia Erzegovina al Ruanda alla Palestina. In Italia è la principale studiosa di resilienza, e sulla scena internazionale collabora con il gruppo guidato dal professore francese Boris Cyrulnic, che nel luglio 2012 ha organizzato il primo convegno mondiale sul tema. Le situazioni traumatiche sono diventate il suo ambito di lavoro. All’estero come in Italia, dove però, dice Malaguti, «bisogna ancora imparare a lottare». E convincersi che «la crisi è sempre occasione di cambiamento, sta a noi fare in modo che sia positivo». Questione, pare «di paradigma».
Cos’è la resilienza e cosa c’entra con l’Italia di oggi?
Di fronte a a un fatto drammatico che invade la nostra vita, la resilienza è il processo con cui trasformo la difficoltà in possibilità. Ci sono diverse fasi. Innanzitutto resisto, faccio fronte alla difficoltà. Nel farlo acquisisco nuove capacità e soprattutto una nuova consapevolezza di quanto sta accadendo. Poi, dopo aver fatto i conti con l’evento traumatico, si trova la propria sintesi positiva, un nuovo equilibrio buono, cucendo e mettendo in ordine i fili tra il prima, il durante e il dopo l’evento drammatico.
L’Italia sta vivendo una situazione di crisi, e proprio nella crisi c’è questa possibilità di rimbalzare e riorganizzarsi. Ma resta anche la possibilità di non farcela, di non riuscire a cogliere l’opportunità di un cambiamento.
Come si fa allora ad essere resilienti? Quali risorse occorrono?
Da sempre l’uomo si è trovato di fronte a eventi drammatici, traumatici. Tutte le volte che è riuscito a fare i conti con il fatto, e a trovare una soluzione positiva, allora diciamo che è stato resiliente, ha reagito costruendo qualcosa di positivo. Può accadere spontaneamente, in base alle capacità personali di ciascuno e alle condizioni della comunità in cui vive. Ma è un processo che può essere anche attivato, liberando chi invece cade nella desilienza, chi resta incastrato nell’evento negativo.
Per farlo dobbiamo innanzitutto uscire dal determinismo ed entrare in un paradigma evolutivo. Smettere di credere che le cose sono già destinate ad andare in un certo modo solo perché si hanno premesse di un certo tipo.
Poi occorre andare oltre la denuncia. Dal lamentare quel che non funziona – comunque importante perché è il riconoscimento di un vuoto – al creare uno spazio di possibilità, cominciando a vedere come cambiare le cose.
Aiuta molto avere un orizzonte di senso, un progetto in mente verso cui tendere.
Eppure, accanto alle capacità e alle risorse del singolo – tra cui autodeterminazione, autonomia, stima, fiducia, flessibilità – conta molto anche il contesto in cui ci si trova: la creazione di reti e legami è un fattore fondamentale per affrontare le difficoltà, perché si ha bisogno di qualcuno che ti vede e ti accompagna. Così come il trovarsi in un ambiente equo e legale. Il processo di resilienza non avviene mai in autonomia, coinvolge il gruppo.
Come vede lei questa Italia 2013, resiliente?
Quando incontro le persone – da ricercatrice sono spesso in contatto diretto con situazioni di difficoltà – vedo tante pmi, scuole e ospedali che lavorano con serietà e attivano possibilità diverse per far fronte alla crisi: lavorano in rete, lavorano a costi minimi… Però vedo anche tanta stanchezza, tanto bisogno di sostegno. C’è, secondo me, la necessità di sentirsi dire: «Ce la possiamo fare». Credo che dovremmo resistere a tutto ciò che ci porta nell’involuzione e dire «andiamo avanti». Le persone hanno voglia di costruire, soprattutto i giovani. Ma in Italia c’è troppa stasi. Sono gli adulti e le istituzioni che non attivano, non si organizzano. Bisogna evitare però anche di limitarsi alla denuncia e al lamento. Le istituzioni in fondo sono fatte di persone. Devono essere attivate approcciandole con spirito propositivo. Se vai e dici «Siete incapaci», si chiudono, se invece proponi, ti vengono dietro.