«Nel campo degli antitumorali sono molte le nuove molecole entrate da poco in commercio, e di dubbia efficacia, ma dal costo ingente. In questo caso il loro utilizzo è discutibile. Non vale la pena spendere tanto per un farmaco il cui beneficio è limitato, che magari aumenta la sopravvivenza di qualche settimana. Ed è discutibile anche nei nostri Paesi. In altri casi come questo del Glivec, però, il beneficio è talmente evidente che non c’è discussione in merito. Bisogna renderlo accessibile ai malati che hanno questa leucemia, la mieloide cronica, per cui il farmaco è estremamente efficace». Maurizio D’Incalci, capo Dipartimento di Oncologia presso l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano, su questo non ha dubbi.
Lunedì scorso la Corte Suprema di New Delhi ha (non per la prima volta) alzato la voce contro i grandi colossi dell’industria farmaceutica, negando all’azienda svizzera Novartis l’esclusiva per la produzione del farmaco antitumorale imatinib (nome commerciale Glivec) che potrà essere prodotto anche dalle ditte produttrici di generici indiane. Dopo sette anni di controversie legali l’India ha respinto il ricorso in appello contro il rifiuto di attribuire un brevetto sul Glivec rivendicato da Novartis – e approvato in 40 Paesi tra cui tra cui Cina, Russia e Taiwan – perché «il prodotto non è originale e innovativo» come dichiarato nella sentenza e utilizza una molecola già nota, con una diversa formulazione farmaceutica (un sale, l’imatinib mesilato).
«L’ennesimo caso di “evergreening” (sempre verde)», spiega D’Incalci a Linkiesta. «La molecola era già stata brevettata e quella proposta da Novartis di recente era la molecola attiva, modificata e migliorata un po’ nella formulazione. Il principio attivo però è sempre lo stesso». Piccole modifiche strutturali apportate dalle industrie farmaceutiche, alle molecole chimiche di prodotti già in commercio e brevettati, che in questo modo riescono a prolungare il brevetto e mantenere il monopolio su quel farmaco, stabilendo prezzi da capogiro.
«Spesso questi cambiamenti vengono riconosciuti come originali, anche se la vera innovazione era già stata dichiarata nel brevetto precedente», continua il farmacologo del Mario Negri, «non si tratta di scoprire un nuovo farmaco ma di migliorarne la formulazione. È l’ufficio brevetti a decidere se anche un minimo di attività è sufficiente per stabilire un nuovo brevetto, e in alcuni casi l’innovazione è evidente, mentre in altri c’è un margine di soggettività. Fino a oggi molte industrie farmaceutiche sono riuscite a ri-brevettare un farmaco introducendo piccole modifiche. Ma è necessario anche un po’ di buon senso, e in questo caso penso che non ci sia molto da discutere: la nuova formulazione non è così rilevante sull’efficacia del farmaco».
Sentenza storica, quindi, che apre la porte a una rivalutazione della concessione dei brevetti e intacca il potere di “Big pharma” a vantaggio delle industrie di generici «e l’india è uno dei Paesi meglio attrezzati per la produzione di generici di buona qualità» afferma D’Incalci. «Hanno laboratori di chimica efficienti che consentono ottimi prodotti a costi inferiori tanto da essere venduti anche in Italia e altri Paesi con maggior risorse economiche». Tutto a vantaggio di Cipla e Rambaxy, insomma, le maggiori ditte produttrici di generici in India, che potranno vendere il farmaco in tutto il mondo. Mentre Novartis India dichiara che «questa sentenza rappresenta una battuta d’arresto per i pazienti e ostacolerà la ricerca di farmaci innovativi per patologie senza opzioni terapeutiche efficaci».
«Questo non significa che il principio del brevetto debba essere eliminato», continua l’oncologo milanese «perché la ricerca di farmaci innovativi ha bisogno di investimenti che devono garantirne lo sviluppo. E le entrate future servono per coprire questi costi. Però mettere sullo stesso piano Paesi che dispongono di risorse economiche tali da garantire l’accessibilità alle cure a tutti i cittadini con i Paesi sottosviluppati che questo non possono permetterselo, non è corretto».
Si passa dai 2.600 dollari al mese per il trattamento con il farmaco “griffato” Novartis ai 176 per la versione generica indiana. Differenza dovuta non tanto ai materiali scadenti usati per la produzione dei generici, come si pensa di solito, ma per coprire i soldi spesi in ricerca e sviluppo dall’industria farmaceutica. «Le industrie spendono tanto perché investono in molti progetti di ricerca, e solo una piccola parte di questi poi va in porto. Quando un farmaco va bene, quindi, deve coprire anche i costi dei progetti andati male», spiega D’Incalci. «Poi ci sono le spese di produzione del farmaco e il marketing che dal nostro punto di vista sono esagerati e in parte evitabili. Non stiamo palando di beni di consumo ma di sostanze che servono per la salute umana, per cui deve esser sufficiente documentare l’efficacia del farmaco e diffonderne la conoscenza fra la comunità medico scientifica, non serve fare pubblicità al farmaco. Tutte spese che possono essere evitate e forse val la pensa ripensare al modo in cui si sviluppano i farmaci».
In questo momento i farmaci antitumorali entrati in uso da poco hanno lo stesso prezzo nei Paesi poveri come in quelli più sviluppati. Con l’eccezione di quelli con il brevetto scaduto per cui è possibile produrre generici low cost. La differenza economica è tale da rendere accessibile il farmaco anche alle persone più povere che altrimenti non potrebbero ricevere una cura salvavita. «Per questo servirebbero degli accordi internazionali che permettano a tutti di avere accesso a farmaci salvavita di provata efficacia, a costi più bassi. Credo che sia necessario parlare di questo problema, perché tutti hanno diritto a una cura se c’è. Come è stato per l’Aids, per cui alla fine i costi delle cure sono stati ridotti e grosse fette di popolazioni dei Paesi con scarse disponibilità economiche sono riusciti ad avere accesso ai farmaci. È necessario che le industrie e i Governi dei vari Paesi trovino degli accordi per portare avanti queste strategie».
Novartis dal canto suo, in un comunicato stampa ribadisce di «aver fornito gratuitamente il Glivec al 95% dei pazienti ai quali è stato prescritto in India, attualmente più di 16.000 persone». Naturale chiedersi che senso avesse allora la lotta intrapresa contro Novartis, se il farmaco venivagià donato. «Non metto in dubbio che Novartis, come molte altre industrie, doni farmaci ai Paesi del Terzo Mondo» spiega D’Incalci «ma la donazione oggi c’è domani chissà. E a chi e quanti farmaci vengono donati lo decidono loro. Una legge che affermi che modifiche molto piccole in una molecola non giustificano un brevetto e soprattutto non permetta di mantenere prezzi molto alti anche per i Paesi più poveri, spaventa molto di più. Per questo non solo Novartis, ma molte industrie farmaceutiche hanno reagito con fermento a questa sentenza. Perché potrebbe dare il via ad altre vicende come questa».