“La Primavera araba non è ferma, è un cambio epocale”

La transizione dopo le Primavere

VENEZIA – Un Pil che nel 2012 è cresciuto di appena l’1,9% (contro il 5% del 2010). Un tasso di disoccupazione superiore al 12% segnalato dagli organismi internazionali. Un’inflazione di oltre l’8,5%. Una crescente instabilità e tensione sociale. È l’Egitto di oggi. La terza economia del continente africano, nonostante tutto. Più di ottanta milioni di persone sospese in una transizione che sembra essere senza fine, mentre quella di Piazza Tahrir pare oggi più che mai una rivoluzione incompiuta. E proprio questo è il titolo dell’ultimo libro di Marc Lynch, professore associato di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali e Direttore dell’Istituto di Studi sul Medio Oriente della George Washington University: “The Arab Uprising, The Unfinished Revolutions of the New Middle East” (PublicAffairs).

Chi si aspettava processi di transizione rapidi e indolori per i Paesi protagonisti della primavera araba è rimasto deluso. Ma a un attento osservatore come Lynch non sfugge l’importanza storica della trasformazione in atto. E il suo messaggio è chiaro: le transizioni, ormai avviate richiederanno tempo. Ma anche la Primavera araba, che pure ha avuto successo in Tunisia ed Egitto, ha richiesto tempo. Le rivoluzioni non sono nate dal nulla ma da un processo di trasformazione durato anni, e per il quale l’arrivo dirompente dei social media è stato fondamentale.

Le proteste popolari, i movimenti sociali, i blog, Twitter. «Tutto questo ha contribuito a influenzare la regione: ciò che è successo a Piazza Tahrir e durante la Primavera Araba è il risultato di trend visibili da lungo tempo più che qualcosa di radicalmente nuovo. Guardandola in questo modo anche la situazione attuale appare meno tetra e spiacevole, perché va interpretata come un cambiamento strutturale, di lunga durata» spiega Lynch a Linkiesta, che lo ha intervistato a Venezia.

Non è difficile capire a cosa si riferisca Lynch. Le attuali condizioni dell’Egitto, il Paese arabo da sempre parametro per misurare e prevedere i cambiamenti in arrivo nel resto della regione, non sono certo incoraggianti. La gravissima crisi economica, i timori di una deriva autoritaria da parte del presidente islamista Mohamed Morsi, la crescente instabilità politica e sociale e, negli ultimi giorni, nuovi scontri fra cristiani copti e musulmani sono solo alcuni dei problemi che affliggono il Paese. Nonostante tutto, però, Lynch insiste: «Non stiamo assistendo a delle rivoluzioni sorte inaspettatamente, e altrettanto rapidamente fallite».

Come valuta l’operato dei governi islamisti democraticamente eletti dopo la rivoluzione in Egitto e Tunisia?
Penso che fosse importante procedere in fretta con le elezioni e credo che tutti sapessero, o dovessero sapere, che i partiti islamisti le avrebbero vinte. All’epoca dei vecchi regimi erano l’opposizione meglio organizzata, godevano di significative risorse e della reputazione di essere onesti e indipendenti. Ma la loro esperienza di governo (e mi riferisco più all’Egitto che alla Tunisia) sta andando molto male. Penso però che questo sia positivo per il futuro di entrambi i Paesi: gli islamisti hanno vinto le elezioni ma stanno governando male. Quindi si spera che alle prossime vengano puniti e perdano, diventando così più simili a qualunque attore politico normale che a un’entità a parte, com’è stato finora. Il problema è che la situazione è così difficile, soprattutto in Egitto, che il prezzo del fallimento dei Fratelli Musulmani lo sta pagando l’intero Paese, tanto che molte persone sono preoccupate che l’Egitto non riesca a sopravvivere al loro fiasco. Ancora, credo che alcuni preferiscano vedere i Fratelli Musulmani in ginocchio che l’Egitto risorgere. È una situazione molto difficile.

Esistono delle forze controrivoluzionarie in Egitto? E se esistono, chi sono e come stanno agendo?
Credo che il concetto di “forze controrivoluzionarie” non sia l’elemento più interessante. Le dimissioni di Mubarak hanno lasciato spazio a un’arena politica divisa fra gli islamisti e tutti gli altri. Quindi molti dei rivoluzionari più convinti ora stanno pensando di schierarsi con l’esercito e il vecchio regime, perché quella è la loro unica possibilità di riuscire a competere con i Fratelli Musulmani e i salafiti. Mohammed El Baradei non può essere definito controrivoluzionario. È un rivoluzionario eccome, eppure ora si trova obbligato ad allinearsi con forze che potrebbero essere definite controrivoluzionarie, il che crea una dinamica politica davvero molto confusa.
Penso che il problema reale in Egitto oggi non siano tanto i Fratelli Musulmani e le loro ambizioni, ma l’assenza di istituzioni, il caos e la mancanza di qualunque processo politico. L’Egitto ha un disperato bisogno di tornare alla normalità politica. Penso sia fondamentale che l’opposizione partecipi alle elezioni parlamentari e batta i Fratelli Musulmani. Ma molti oppositori pensano che l’intero sistema sia così ingiusto e antidemocratico che partecipare alle elezioni significherebbe legittimarlo. 

Secondo il quotidiano Al Ahram, da quando il presidente Morsi è al potere l’uso della tortura sarebbe aumentato. Eppure i Fratelli Musulmani (la forza politica dalla quale proviene Morsi) l’hanno subita sulla loro pelle per anni. Pensa che si tratti di un aumento dovuto effettivamente alla gestione del presidente o è possibile che la polizia sia infiltrata da forze “mubarakiste”?
Le istituzioni, e soprattutto il Ministero degli Interni e i servizi di sicurezza, non sono state oggetto di alcun tipo di riforma, in pratica. E sono, da anni, profondamente ostili ai Fratelli Musulmani. Quindi i Fratelli siedono effettivamente ai vertici dello Stato, ma non ne hanno il controllo.

Perché i Fratelli Musulmani non hanno cercato di assumere il controllo dei gangli vitali dello Stato? Come è possibile? È una questione di incompetenza?
Si. In Egitto succedono tante cose che parrebbero impossibili. Questo in parte è anche il risultato del modo in cui è stata gestita la transizione, guidata dai militari: fra questi e il Ministero degli Interni c’è sempre stata una grande rivalità e ben poca collaborazione. Quando i Fratelli hanno vinto le elezioni, semplicemente non avevano la forza necessaria per imporsi nei ministeri. E se l’avessero fatto la gente sarebbe stata ancora più preoccupata, avrebbe pensato che i Fratelli cercassero di imporre il proprio dominio sulle istituzioni. C’è un vero squilibrio fra i politici eletti, i rivoluzionari e le vecchie istituzioni: mi riferisco non soltanto al Ministero degli Interni ma anche alla Corte Costituzionale, e ai milioni di impiegati dell’immenso apparato burocratico che hanno servito il vecchio regime per anni, e la cui lealtà non è cambiata.

Crede che l’aumento delle violenze contro le donne egiziane sia parte di un piano per screditare il nuovo governo?
Potrebbe essere, ma la verità è che nessuno ne ha la certezza. Penso che la spiegazione possa essere anche il fatto che l’ordine pubblico sta andando in frantumi. L’avevo notato già nel dicembre del 2011: la gente che lottava per strada contro la polizia era molto diversa da quella che stava in Piazza Tahrir durante la rivoluzione. Sono apparsi molti gruppi che non hanno un’agenda politica, che vogliono solo lottare contro la polizia, creare problemi. Sono pagati dal governo? Nessuno lo sa. Ma la cosa che più mi spaventa è il livello di violenza che c’è fra i vari gruppi nelle strade, che non avevo mai visto prima in Egitto. La polarizzazione fra islamisti e secolari è arrivata a livelli che non avevo mai visto prima in Egitto.