Una prima volta citata come testimone, non si trovava. Una seconda era in Messico. La terza volta si era presentata a Palazzo di Giustizia, ma era il giorno in cui la difesa aveva rinunciato a sentirla come teste. Poi, in un giorno qualunque, Karima El Mahroug, oggi 21enne, “l’ipotizzata vittima” nel processo che vede imputato Silvio Berlusconi per concussione e prostituzione minorile si presenta davanti al tribunale di Milano con cartello alla mano, per chiedere di essere sentita dai giudici, «per raccontare la verità».
In total black, con poco trucco e i lunghi capelli raccolti in una semplice coda di cavallo, la giovane marocchina assalita dai cronisti non risponde alle domande. Si fa fotografare e poi chiede di essere ascoltata e inizia la lettura di una nota fiume. Per la figlia e la sua famiglia.
«Per due anni ho scelto di rimanere in disparte nel tentativo di riacquistare, grazie alle persone a me care, la tranquillità e la normalità che mi spettano e che il processo Ruby mi ha sottratto. Ho atteso con pazienza di poter spiegare cosa è successo veramente. Quanto mi sento strumentalizzata da quella parte della stampa e della magistratura che aveva un obiettivo comune: colpire le persone che mi hanno aiutato». Era sicura «che prima o poi» il tribunale di Milano volesse raccogliere anche la sua verità, «la versione reale delle cose».
Parla delle sue bugie Ruby. «Mi dispiace di aver mentito anche sulla parentela con Mubarak e di aver detto altre bugie sulle mie origini». «Presentarmi come la nipote di Mubarakmi serviva a costruire una vita parallela, diversa dalla mia. Mi serviva a mostrare un’origine diversa, lontana dalla povertà in cui sono nata e cresciuta e dalla sofferenza che ho patito prima e dopo aver lasciato la mia famiglia in Sicilia». Bugie che si «spiace aver raccontato anche a Silvio Berlusconi» che, «oggi sono sicura, si sarebbe dimostrato rispettoso e disposto ad aiutarmi anche se avessi detto la verità».
Punta il dito contro i giornalisti, ma anche i magistrati. «La colpa della mia sofferenza è anche di quei magistrati che, mossi da intenti che non corrispondono a valori di giustizia, mi hanno attribuito la qualifica di prostituta, nonostante abbia sempre negato di aver avuto rapporti sessuali a pagamento e soprattutto di averne avuti con Silvio Berlusconi. L’unica prova fornita nel processo che dimostrerebbe che io mi prostituivo, sono delle fotografie che il capo degli investigatori ha mostrato in aula dopo averle scaricate dal mio profilo facebook: una circostanza ridicola».
Racconta di essere stata «vittima» di un «atteggiamento investigativo
apparentemente amichevole che è progressivamente mutato quando è stato chiaro il fatto che non avrei accusato Silvio Berlusconi. A quel punto sono iniziate le intimidazioni subliminali, gli insulti nei confronti delle persone che mi avevano aiutato: una vera e propria tortura psicologica».
A tratti si commuove. Poi chiede di essere ascoltata, per raccontare «l’unica verità possibile». E impedire «a chiunque di offendermi ancora per qualcosa che non ho fatto. Voglio che mia figlia sia fiera di sua madre».