In un paese di lavoratori a progetto, non avrebbe certo sfigurato inaugurare anche un governo «a progetto». Un governo che avesse chiesto la fiducia impegnandosi a compiere poche significative misure, prima fra tutte il sostegno al lavoro, per poi rimettere il proprio mandato al Presidente della Repubblica, sarebbe stato più coerente con il mandato elettorale. Invece Enrico Letta ha optato per un governo «di servizio» al paese, coerente con la rielezione di Napolitano ma difficilmente in grado di produrre quelle tre riforme fondamentali che gli permettano di evitare i rispettivi veti incrociati.
Letta ha infatti presentato un programma ambizioso, da svolgersi in un orizzonte abbastanza lungo (almeno 18 mesi nelle parole del premier). Questa scelta è particolarmente sorprendente per un governo che non è passato al vaglio elettorale. Ci sono molte osservazioni interessanti in quel che Letta ha proposto, ma la perplessità fondamentale nasce dall’impostazione della proposta politica. Infatti, se Letta menziona quasi tutti i temi centrali della riforma dello stato, con forse l’unica eccezione del conflitto d’interessi, due caratteristiche del suo discorso di insediamento saltano agli occhi e sembrano difficili da difendere.
La prima caratteristica è che quasi tutti i temi suggeriti da Letta implicano un aumento del deficit della pubblica amministrazione. Si va dalla riduzione dell’imposizione fiscale come la sospensione dell’Imu e la riduzione delle tasse sul lavoro, a programmi di incremento della spesa pubblica come il sostegno all’edilizia, l’ammodernamento energetico e gli ammortizzatori sociali. Sono tutti fini legittimi e apprezzabili, ma elencati così danno piuttosto l’idea di un compromesso di governo in costruzione, piuttosto che di un progetto di governo.
La seconda caratteristica è che si faticano a cogliere le priorità e, con esse, le fonti di finanziamento di anche solo una di queste proposte. L’esperienza politica italiana insegna che, ogni volta che gli accordi di governo si definiscono in itinere, la spinta riformatrice finisce per essere molto fiacca e le riforme si bloccano, almeno nella nostra storia più recente, per via dalla mancanza di copertura finanziaria.
Il governo Letta verrebbe meglio incontro al proprio ruolo se si basasse sull’impegno a divenire un governo «a progetto» per poche chiare riforme da compiersi prima di rimettere il proprio mandato. Le tre politiche del governo a progetto dovrebbero avere un semplice fine: permetterci di chiedere la parola ai cittadini in un contesto di maggiore tranquillità generale.
Abbiamo bisogno:
- di una riforma costituzionale coerente con una nuova legge elettorale maggioritaria – o almeno la seconda;
- del pagamento del massimo dei debiti della pubblica amministrazione;
- del rifinanziamento della cassa integrazione con annessa riduzione delle tasse sul lavoro.
Diamoci sei mesi per queste tre scelte e poi valutiamo il senso di continuare l’impegno del governo. Mentre un governo di trattativa snerverà questo paese, un governo «a progetto» potrebbe essere in grado di farlo ripartire.
Dal momento che la principale mancanza del discorso di Letta consiste nella carente copertura finanziaria delle sue manovre, vale la pena avanzare una proposta piuttosto netta in questo ambito. Mentre il livello della spesa pubblica italiana è comparabile alla Germania, la sua allocazione lascia piuttosto a desiderare. In particolare, una delle principali storture risiede nella spesa per gli organi esecutivi, legislativi e affari esteri che, nel 2010 secondo Eurostat, era in Italia di un punto di pil più alta della Gran Bretagna, dello 0,7 per cento più alta della Germania e dello 0,8 per cento maggiore rispetto alla Spagna. Non c’è ragione di pensare che oggi queste differenze siano scomparse. E un punto di Pil, ricordiamocelo, vale 15 miliardi.
Sono differenze importanti, che si aggiungono alle cosiddette “pensioni d’oro”. Dalla remunerazione del capo della polizia che guadagnava quasi il doppio del capo dell’FBI arriviamo a esempi altrettanto eclatanti, che includono presidenti degli organi costituzionali e ruoli apicali nelle svariate articolazioni ministeriali dello stato. Il problema è che non si tratta di casi isolati: molti, anzi troppi, guadagnano più del Capo dello stato. Viene il sospetto fondato che queste remunerazioni nella pubblica amministrazione contribuiscano in maniera non trascurabile a quella che appare una delle principali storture della spesa pubblica italiana. Se questa intuizione fosse corretta, bisognerebbe intervenire immediatamente e le risorse potrebbero finanziare anche solo una delle proposte avanzate da Letta.
Ma tra i temi discussi da Letta ce n’è uno che dovrebbe ricevere attenzione prioritaria. Il fisco italiano è uno dei responsabili dello svilimento del ruolo del lavoro. Secondo l’Ocse, il nostro paese tassa il reddito individuale più di Gran Bretagna, Austria, Germania, Stati Uniti, Francia e Spagna. Per rendersi conto della stortura nell’attuale sistema fiscale italiano, un cittadino che guadagna 30mila euro lordi all’anno deve rinunciare a circa 70 euro per ogni 100 euro in più che il suo datore di lavoro decide di spendere su di lui. Tutto questo non ha senso e non è certo la patrimonializzazione del fisco con l’introduzione dell’Imu ad aver peggiorato questo stato di fatto. Ad oggi, anche con l’Imu, il gettito di questa imposta è meno della metà della Francia e un terzo della Gran Bretagna. Non possiamo tenere in piedi un sistema fiscale così penalizzante del lavoro e un apparato dello stato che, nel suo cuore, costa un punto di pil in più della Gran Bretagna.
Cominciamo allora con il mettere un limite: nessuno nella pubblica amministrazione può guadagnare più dei 239.182 euro di Giorgio Napolitano, anche cumulando diversi incarichi. Questo tetto alle remunerazioni offre ampi margini alla remunerazione del merito nella pubblica amministrazione, ma offre anche risparmi altrettanto larghi. Risparmi che possiamo utilizzare, per una volta, a favore di tutti i lavoratori, tagliando l’Irpef senza aumentare il deficit pubblico.
Un governo «a progetto» forse durerebbe meno di un governo di servizio, ma certamente permetterebbe a questo paese di andare più lontano.
@taddei76
SAIS The Johns Hopkins University