Le bambine del Raìs nel lager di Bab al-Azizia

Le testimonianze raccolte dalla giornalista francese Annick Cojean

Con qualche storia in mano e pronta a scrivere la sua inchiesta per Le Monde, la giornalista Annick Cojean sta per lasciare la Libia. È il 29 ottobre 2011, Gheddafi è morto da una settimana e il Consiglio nazionale di transizione ha proclamato la liberazione del paese. La Libia è nel caos. «Quanti anni mi dà?», le chiede l’ultima mattina di viaggio una ragazza coperta da un velo nero. Attende ansiosa la reazione di quella che ha riconosciuto essere una giornalista. Poi, togliendosi gli occhiali, la precede. «Ho l’impressione di avere quarant’anni», dice. «Di anni ne aveva ventidue», racconta la reporter. Quell’incontro è per Annick l’inizio di un lunghissimo viaggio, diventato da poco libro inchiesta, pubblicato in Italia da Piemme: Le prede. Nell’harem di Gheddafi.

«Andavo scoprendo», scrive la Cojean, «che centinaia di giovani donne erano state rapite per un’ora, una notte, una settimana o un anno e costrette, con la forza o con il ricatto, a sottomettersi alle fantasie e alle violenze sessuali di Gheddafi». Soraya è una di loro, l’unica abbastanza coraggiosa da andare in cerca di una giornalista cui raccontare quello che le altre donne libiche tacevano. E che chiamavano, senza svelarlo, il loro «conto personale con il Colonnello». La sua, diventa la voce narrante della prima parte di un volume diventato in breve best seller internazionale. Capace com’è di portarti fin dentro la follia del Rais e quella di una Libia che anziché denunciare tace. Perché una figlia stuprata è un disonore infamante. 

«Ho porto il mazzo, poi gli ho stretto la mano». Soraya racconta con un’immediatezza che dà i brividi. Ricorda il primo incontro col Colonnello, in visita alla sua scuola. «A quel punto ho sentito che mi premeva in modo strano il palmo. Poi mi ha squadrato dalla testa ai piedi con uno sguardo freddo. Mi ha stretto la spalla e mi ha posato una mano sulla testa accarezzandomi i capelli. E la mia vita è finita in quel momento». Perché quel gesto, scoprirà poi, era un segnale per le guardie. Il significato era: «Questa la voglio».

Passa solo un giorno e tre donne di Gheddafi la raggiungono nel negozio della madre. Faiza, Salma e Mabruka, armate. Sono tre delle celebri “amazzoni” che accompagnavano ogni viaggio del Rais, quelle stesse che questo libro svela essere tutte ex concubine con un passato identico a quello di Soraya. La prendono e con una scusa la portano a Bab al-Azizia, il quartier generale di Tripoli.

«Preparatela», ordina Gheddafi quando la vede. È il 2004, Soraya ha 15 anni. Le fanno il prelievo del sangue, la depilano. Le fanno indossare un perizoma. La ragazza non capisce cosa accade. Pensa a sua madre, che è in negozio e aspetta che torni. Poi, con una veste satinata indosso, la conducono fino a una stanza del palazzo. Gheddafi nudo sul letto e una porta che si chiude dietro di lei.

Soraya perde la verginità violentata dal Rais e diventa una delle sue schiave. Non rivedrà la sua famiglia per anni, costretta a fumare, bere alcol – lei che è musulmana – e a sniffare. A guardare dvd porno, per «diventare più brava». A entrare nella stanza del Colonnello mentre lui sodomizza un ragazzino. In un crescendo di orrore che le lascia sul corpo lividi, morsi e cicatrici.

Dietro Soraya c’è un intero sistema, noto a molti ma sempre taciuto. «In ogni zona della Libia», scrive Annick, «Gheddafi disponeva di una banda di criminali che faceva quello sporco lavoro», «reti in cui erano coinvolti diplomatici, militari, guardie del corpo, funzionari dell’amministrazione e del suo ufficio del protocollo, che avevano come missione fondamentale quella di procurare al loro padrone delle ragazze – o dei ragazzi – per il suo uso e consumo quotidiano».

Vite rubate, e consumate, strappate alle feste di matrimonio, alle scuole, alle università e rinchiuse in un sotterraneo di Bab al-Azizia. Ammesse a uscire solo per entrare nella camera da letto del Capo o accompagnarlo nei suoi viaggi. «Soraya non va in spiaggia, non naviga su Internet. Non ha un profilo Facebook. Non ha neanche più degli amici con cui condividere le sue collere o andare a iscriversi a una lista in vista delle elezioni».

La reporter indaga, raccoglie a fatica altre storie e ascolta la voce di molti degli ex collaboratori di Gheddafi, a partire dagli autisti di Bab al-Azizia, «nella posizione migliore per assistere a quell’incessante incrociarsi di donne». E la seconda parte del libro disegna un sistema folle di potere tutto basato sul sesso. Perché il Rais non si limitava a rapire e stuprare ragazzine innocenti. Ma era ossessionato dall’idea di possedere tutte «le mogli o le figlie dei ricchi», «dei suoi ministri e generali, dei capi di stato e dei sovrani». Fino alle prede proibite a priori e per questo più ambite: le mogli e le amanti dei suoi stessi figli. E per farlo era disposto a tutto.

«Avevano distrutto i miei sogni, rubato la mia vita», dirà Soraya. «E non potevo nemmeno dirlo. Perché ciò che mi era stato fatto era così vergognoso che fuori sarei stata io a diventare un’appestata». Quando la Cojean raggiunge il padre di Soraya, si trova di fronte ai meccanismi spiazzanti della società libica. «Tutto il nostro ambiente dubita della storia di Soraya e mi considera logicamente come un “sottouomo”. Da noi non esiste insulto più terribile. E colpisce anche i miei figli. Sono distrutti, complessati, incapaci di immaginare un’altra soluzione, per sembrare dei veri uomini, che non sia uccidere la sorella».

«Soraya era una vittima», scrive Annick, «una di quelle vittime così ingombranti e disturbanti che sarebbe più semplice farle diventare colpevoli». Tanto più in una Libia dove il sesso è tabù e una ragazza stuprata, per sopravvivere, deve restare zitta e nascosta. Pena la morte, per mano dei suoi stessi fratelli. 

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