In questi giorni è entrato nel vivo il processo “Borsellino-quater”, ossia il quarto processo celebrato da vent’anni a questa parte per chiarire responsabilità e dinamiche di quel 19 luglio del 1992 quando in via Mariano d’Amelio a Palermo persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta. Insieme a loro c’era anche Antonio Vullo, unico sopravvissuto all’esplosione delle 16.58. Nel processo volto a fare luce sui responsabili dell’eccidio sono imputati il boss Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, accusati di aver partecipato attivamente durante la fase preparatoria della strage. I falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci sono invece accusati di calunnia. Già condannati con rito abbreviato i due pentiti che hanno contribuito a riscrivere la storia di via D’Amelio, Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina.
Una volta esaurite le udienze “tecniche” riparte proprio dalla testimonianza di Vullo, primo di trecento testimoni, il processo che dovrebbe mettere la parola fine ai vari processi sulla strage di via d’Amelio. Un percorso a ostacoli fatto di dodici giudizi, falsi pentiti ed errori investigativo-giudiziari, che iniziano a palesarsi a poche ore dall’eccidio.
In vent’anni tante suggestioni e nessuna certezza su dove fosse appostato chi materialmente ha premuto il comando per far esplodere l’autobomba Fiat 126, portata in via d’Amelio dal pentito Gaspare Spatuzza. Questo processo proverà invece a fare definitivamente luce sulla strage dopo che tre gradi di giudizio avevano suffragato la versione di un falso pentito grazie anche a depistaggi e clamorosi errori investigativo-giudiziari.
Con la deposizione dello scorso 8 aprile dell’agente di scorta Antonio Vullo, sopravvissuto all’eccidio di via d’Amelio, l’aula è tornata a rivivere i momenti immediatamente precedenti e successivi la deflagrazione di quel tardo pomeriggio domenicale del 19 luglio 1992. «Si notava una scena di guerra – scrive nel primo rapporto di polizia stilato dal sovrintendente Vincenzo Alberghina che arriva sul posto a bordo della volante “21” – con tante auto distrutte, mentre altre bruciavano ancora, proiettili che sparavano da soli perché a contatto con il fuoco, gente dei palazzi che chiedeva aiuto, nonché un individuo che veniva incontro imprecando aiuto». Quell’uomo era proprio Antonio Vullo.
Ed è proprio in quei momenti, e nei giorni immediatamente successivi, che l’attenzione degli investigatori punta a un complesso in costruzione in una via adiacente via d’Amelio. Dall’ultimo piano di quel palazzo in costruzione la visuale sul luogo della strage è perfetta, e ben nascosta tra piante ad alto fusto. Uno stabile oggi al centro del nuovo processo, perché proprio da lì, e dietro il muretto che separava via d’Amelio dallo stabile dei Graziano, Giuseppe Graviano, boss di Brancaccio, stando anche alle dichiarazione del collaboratore di giustizia Fabio Tranchina, che la procura di Caltanissera ritiene attendibile, avrebbe premuto il comando per far saltare in aria Borsellino e gli agenti della scorta.
L’edificio è denominato “Complesso Iride”, ed è stato costruito dalla ditta “Iride”, il cui amministratore, scrivono nella relazione di servizio del 20 luglio gli investigatori della mobile di Palermo, «è tale Graziano Francesco». Si trova a centosettanta metri da via d’Amelio, e i fratelli Graziano sono vicini al clan dei Madonia, egemoni sul territorio.
Nella stessa relazione di servizio gli uomini della mobile notavano però che «non veniva tuttavia rilevato nulla che potesse far pensare alla presenza di qualcuno nei locali». Eppure questa conclusione viene in parte smentita da due poliziotti, l’ispettore sostituto Commissario Ravidà e l’ispettore Francesco Arena, i quali sostengono di aver incontrato almeno due persone nello stabile, ovvero i costruttori Graziano, e numerose cicche di sigaretta a terra all’ultimo piano dove so godeva di ottima visuale su via d’Amelio.
Nessuno degli inquilini del palazzo attiguo è stato in grado di fornire ulteriori informazioni, tranne i fratelli Giambra Stefano e Massimo che riferiscono di aver visto la domenica precedente transitare una Ferrari poi in sosta per 30 minuti in una delle stradine che permetteva l’accesso al cantiere.
I fratelli Giambra sono gli stessi che poco dopo la strage decidono di scendere in strada e riprendere le scene, facendo anche alcune foto. Nelle riprese dei Giambra si indugia proprio su quel palazzo in costruzione, ma senza filmare alcun movimento. Le riprese furono poi cedute per 200mila lire alla sede Fininvest di Palermo.
Una pista dunque seguita nell’immediatezza, ma, scrivono i pm della procura di Caltanissetta nella nuova inchiesta che ha portato al processo “Borsellino-Quater”, quello che costituiva un importantissimo indizio «in parte, ma solo in parte, venne sfruttato nell’immediatezza del fatto».
La pista è buona e nei giorni successivi alla strage venivano eseguite anche alcune perquisizioni presso la società “Di Maria Costruzioni s.r.l.”, il cui amministratore era Giuseppe Di Maria, nipote proprio di Graziano Domenico, allora pluri-pregiudicato.
«Dunque – scrivono i pm Lari, Gozzo, Bertone, Marino, Paci e Luciani – appare chiaro che almeno una parte della Squadra Mobile di Palermo aveva individuato già il 19 luglio, proprio nel palazzo dei Graziano, e negli stessi costruttori il punto da cui fare iniziare le investigazioni circa gli autori della strage». Ad aumentare i sospetti fu anche una telefonata anonima arrivata alla Questura e finita proprio nel rapporto del 20 luglio 1992. Nell’occasione una donna, si legge nella relazione, «riferiva che il giorno dell’attentato, nello stabile in costruzione dei fratelli Graziano, al piano ultimo, era stato notato uno strano movimento» aggiungendo che i Graziano sono legati al clan Madonia. Quella telefonata scivolerà però insieme ad altre nove presunte rivendicazioni dell’eccidio. Così come scivolerà inspiegabilmente fuori dalle investigazioni lo stabile dei Graziano.
Insomma «a vent’anni dai fatti» scrivono ancora i pm «il luogo in cui è stata innescata a distanza la carica esplosiva che causò la strage di via d’Amelio rimane uno dei punti più oscuri della ricostruzione accusatoria» da qui l’intento della nuova inchiesta e del nuovo processo «di compiere oggi tutte le indagini che allora non vennero compiute».
Vale la pena riprendere infatti le posizioni dei poliziotti Ravidà e Arena della CriminalPol di Catania, discordanti rispetto a quelle di Giuseppe Lentini, allora Vice Ispettore presso la CriminalPol di Palermo, oggi sostituto Commissario presso da Direzione Investigativa Antimafia di Trapani, Sebastiana Cardinale, all’epoca in servizio presso la Polizia Scientifica di Palermo, e di Giuseppe Cusenza, allora ispettore della “catturandi” (il nucleo che si occupa della cattura dei latitanti) di Palermo, riguardo le ispezioni nello stabile.
Ravidà e Arena sostengono infatti di aver incontrato nello stabile i Graziano, di aver rinvenuto delle cicche di sigaretta (57 giorni prima a Capaci raccogliere e analizzare cicche di sigaretta fu una mossa decisiva per poi arrivare all’individuazione degli esecutori materiali), addirittura di aver preso dei numeri di cellulare, a quel tempo ancora rari e di aver notato anche un vetro “scudato”. Fecero rapporto e rientrarono a Catania. Di quel rapporto però non c’è traccia, e i superiori di Arena a Ravidà a cui i due dicono di averlo consegnato sono entrambi deceduti.
Dove era finita la relazione? «Come mai non si erano effettuate le stesse analisi compiute sul sito della strage di Capaci se nell’immobile dei Graziano vi erano per terra cicche di sigarette? E come mai il vetro “scudato” era appoggiato all’esterno, e scheggiato? Vi potevano essere impronte anche su questo?» si chiedono i pm. Interrogativi che, proseguono «meritavano e meritano una risposta quantomeno più esauriente» rispetto alla nota del 20 luglio 1992.
Ravidà e Arena hanno confermato lo scorso otto aprile la loro versione anche in aula. Lo stesso Ravidà sostiene che quella relazione mai rintracciata dai pm nisseni «sono certissimo che fu fatta».
Sulla stessa linea dei due agenti si attesta Sebastiana Cardinale della Scientifica, che si reca nel palazzo il 21 luglio del 1992, effettuando rilievi fotografici e incontrando anche il responsabile del cantiere Di Maria. Rilievi fotografici preziosi proprio perché venne scattata la fotografia che attesterebbe l’ipotesi secondo cui l’attentatore avrebbe potuto nascondersi dietro le piante ad alto fusto situate proprio all’ultimo piano del palazzo dei Graziano. Quella fotografia dall’ultimo piano del Complesso Iride scattata dall’ultimo piano, fanno notare oggi i pm «non venne però allegata a quelle dell’album fotografico agli atti».
Diversamente invece riferivano Lentini e Cusenza negli interrogatori sostenuti a Caltanissetta nel giugno 2010 «sparse su tutti i piani ispezionati» riferisce Lentini interrogato «si è constata la presenza di cicche di sigarette sparse su tutti i piani dell’edificio ed in minime quantità che non abbiamo ritenuto opportuno prelevare e repertare in quanto probabilmente riconducibili agli operai che all’interno vi lavoravano» aggiungendo che se qualcosa di interesse fosse emerso i colleghi della polizia giudiziaria lo avrebbero avvisato. Così anche Cusenza nega di aver trovato qualcosa di interessante nel palazzo dei Graziano, pur sapendo che quello stabile era nella disponibilità di costruttori in “odor di mafia”.
Il pm Gozzo aveva citato Cardinale, Lentini e Cusenza, che però all’udienza dell’8 aprile erano assenti, l’ultimo senza motivazione, scrivono le cronache giudiziarie. Ma gli indizi su quel palazzo del “Complesso Iride”, compaiono tra le informative del Servizio Centrale della Polizia, addirittura prima delle stragi di Capaci e via D’Amelio: in una nota del 14 aprile del 1992 gli investigatori segnalano che «sull’appezzamento di terreno in oggetto si affaccia un palazzo in via di ultimazione costruito dalla società EDILFER dei noti f.lli GRAZIANO. Questa mattina veniva identificato Francesco GRAZIANO (…) La scorsa sera, verso le ore 19:00, all’interno del cantiere (…) si aveva modo di notare parcheggiata l’autovettura (…) notata in ben due occasioni uscire dalla villa di Carini, via Agavi, dove il 13 dicembre 1991 venne tratto in arresto il latitante MADONIA Salvatore (…)».
In conclusione per i pm nisseni nella vicenda dello stabile non tornano almeno quattro punti: l’analisi delle cicche di sigaretta presenti sui luoghi, visibili anche dalle fotografie della scientifica; l’accertamento della provenienza del vetro “scudato” di cui riferirono Ravidà, Arena e la Cardinale; non si approfondì la presenza di piante ad alto fusto sul terrazzo, stesso luogo in cui vennero rinvenute le cicche di sigaretta e luogo ideale dell’attentatore; in ultimo non fu sviluppata la «traccia Graziano» che, secondo gli inquirenti di oggi, «avrebbe potuto portare in maniera diretta ai Madonia, famiglia egemone del mandamento di Resuttana, competente – dal punto di vista territoriale/mafioso – sui luoghi dell’eccidio”. Una storia tutta da scrivere che si intersecherà in molti passaggi con la cosiddetta “trattativa” Stato-mafia.