Una volta il federalismo era come una bandiera, in Italia. Un trofeo conteso. Eppure, dopo anni di battaglie politiche e mediatiche è scomparso. O, almeno, non ne parla più nessuno. È cominciato ormai un altro tempo: per Luca Antonini, professore ordinario alla Facoltà di Giurisprudenza all’Università di Padova, dal 2009 alla guida della Commissione tecnica per l’applicazione del federalismo fiscale e autore di Federalismo all’Italiana (edizioni Marsilio), «questo è il ciclo dello spread». E tutto è cambiato. «Il processo federalista è stato interrotto» e le cause sono diverse. Nel giorno del giuramento del governo guidato da Enrico Letta, nella cui compagine è presente una forte componente territoriale e di sindaci, sarà interessante capire se quel filo spezzato verrà ripreso. Le risorse per le riforme possono arrivare solo da una differente organizzazione dello stato.
In questi mesi si è corso incontro all’emergenza, e molte delle decisioni prese sono rimaste inattuate. «Ma il problema federalista è anche storico: è stato utilizzato in modo molto strumentale dai partiti», spiega Antonini. E non solo dalla Lega, che ne ha fatto un punto del programma, ma anche dagli altri partiti. Si comincia nel 1997, quando arriva «la riforma Bassanini – che in sé è molto buona» e costituisce, nella storia del Paese, il terzo caso di decentramento dei poteri. Ma nel 2001 arriva perfino una riforma costituzionale del Titolo V «approvata con una maggioranza ristretta e in modo frettoloso»: una manovra politica fatta a fine legislatura per impadronirsi di un tema molto caro agli avversari, cioè la Lega. E proprio per questo, «fatta non bene».
Tra i limiti più gravi, «il decentramento dei poteri legislativi con l’eliminazione dei controlli statali, che ha portato a leggi proprie per ogni regione». Come il federalismo contabile: ogni regione si è approvata proprie leggi di bilancio «che hanno impedito ogni forma di confronto», reso impossibile stabilire linee comuni, reso esorbitanti le spese. «L’emblema è la sanità: in Italia abbiamo modelli virtuosi come la Lombardia, il Veneto, la Toscana e l’Emilia Romagna. Ma anche Lazio, Campania, Calabria, che hanno disavanzi mostruosi». E proprio «per ripianare questi bilanci il governo non può pagare le imprese». Il criterio della spesa storica («più spendi, più prendi»), senza responsabilità, «è stato un vero errore». Dopo la riforma, venne il tempo della Devolution, con tanto di ministero apposito. Ma non se ne fece nulla: «Per la Lega era l’occasione. Poteva riprendersi la bandiera del federalismo». Ma ne uscì una cosa pasticciata, «più per pressioni da parte degli alleati, anche loro interessati a far parte della manovra», non convinse nessuno e al referendum non passò neppure. Ancora, si doveva aspettare. Ma in generale, di fronte a queste riforme, ci sono resistenze anche ovvie: «la trasformazione del Senato in una Camera Federale, con competenze diverse da quelle attuali implica il consenso di chi sta al Senato».
La successiva riforma del federalismo voluta dalla Lega ha avuto un appoggio bipartisan, ma in gran parte è rimasta inattuata. «Ci sono buone iniziative: mette in regola la questione dei costi standard», fissando parametri da rispettare per gli enti locali, solo che «c’è il decreto legislativo ma non c’è il decreto ministeriale. Andava approvato un piano in cui si individuavano regioni benchmark, come punti di riferimento virtuoso. E questo non è stato fatto». Anche il federalismo demaniale, «molto voluto da Tremonti, non è mai decollato», è stato di fatto accantonato. «Monti ha re-istituito un’Agenzia del demanio centrale. Mancava il modo di accordarsi su progetti e costi per valorizzare il patrimonio pubblico. Le iniziative dei Comuni dovevano passare per le Regioni, diventava un “federalismo di complicazione”». Anche i costi e i fabbisogni standard sono pronti, ma non sono applicati, «e sì che basterebbe un decreto». Mentre procede, per la sua strada, l’armonizzazione del bilancio: «regole comuni per tutti, che rendono confrontabili gli enti, a beneficio di tutti». Qualcosa va, qualcosa è fermo in attesa di essere attuato. E altre cose ancora non lo saranno mai. Ma cosa è successo? Perché il nodo del federalismo è scomparso dal dibattito pubblico?
«Di sicuro, lo stato di emergenza che ha travolto il Paese ha ribaltato le priorità». E così è finito il «ciclo del federalismo ed è cominciato il ciclo dello spread. Monti si è trovato di fronte un sistema che non funzionava, doveva tagliare sprechi in breve tempo, e raccogliere soldi. La soluzione più immediata è stata ri-centralizzare». Non solo: «ha anche impiegato provvedimenti che rientravano nel federalismo ma li ha snaturati, come l’Imu». L’Imposta Municipale Propria era, in origine, destinata a sostituire tutte le tasse comunali diffuse in Italia. Il gettito era, nelle previsioni, destinato solo ai Comuni. «Adesso gran parte finisce allo Stato». Anche se, cambiandola, «l’ha anche migliorata, estendendola alla prima casa. Cosa che nel disegno originale non era prevista e andava a privilegiare i residenti rispetto ai possessori di case, per creare un consenso politico in termini di voti». Ma, come è detto, si tratta di una situazione di emergenza. Adesso, occorrerà tornare a parlare di federalismo.
Ma chi lo farà? La Lega si è ritirata. Oltre alle lotte interne di poteri, il partito ha visto una riduzione dei consensi e si è riorganizzato anche a livello territoriale, concentrandosi al Nord. Anche i progetti hanno assunto altri nomi e altri slogan: ora si parla di “Macroregione” e “75% delle tasse al Nord”, «tutte cose molto poco praticabili». All’arrivo di Monti a differenza del federalismo, che «ormai è avviato e andrebbe direzionato per un’impostazione più vicina al modello tedesco (con un Senato federale – un Bundesrat che si impegni sulle questioni territoriali). All’arrivo di Monti i leghisti hanno preferito l’opposizione, difendendo il proprio modello. Ma senza tenuta. «Adesso occorre superare l’ideologia: sottrarre il federalismo alla lotta politica tra fazioni e proporlo come soluzione – inevitabile – per ridurre gli sprechi del Paese». Ma sui tempi e sui modi, è ancora presto.