«Il mondo li aveva presi i lavoratori d’Italia», racconta la voce piena, ansimante, calda di Giuseppe Battiston sul palco del Teatro Elfo Puccini di Milano. La luce è quasi assente. Domina il nero del dolore della separazione. Dalla terra, dagli affetti, dalla libertà di scegliere dove stare. «Hanno lasciato quello che non c’era», dice. L’ambientazione è quella di inizio Novecento, ma potrebbe essere un giorno qualunque del 2013. «Allora come oggi», si ripete durante lo spettacolo. L’attore di Udine, noto al pubblico televisivo come il dottor Freys di Tutti pazzi per amore e a quello cinematografico per la sua interpretazione ne La giusta distanza di Carlo Mazzacurati, racconta le migrazioni italiane usando il testo del poema di Giovanni Pascoli Italy. Sacro all’Italia raminga. Ad accompgnarlo alla chitarra Gianmaria Testa, il musicista ferroviere che alle migrazioni contemporanee ha dedicato un intero album, Da questa parte del mare.
Allora, diversamente da oggi, per noi italiani però «emigrare era una parola nuova». Ad accorciare le lontananze, ci pensavano le lettere scritte. Testa arpeggia alla sua chitarra, Battiston sul fondo del palcoscenico legge, gettando a terra via via i fogli che si perdono nei chilometri. «Vi spedirò franchi 600 per pagare debito per venire in California». «Vi chiedo di spedirmi il nostro formagetto in pacco postale». «Godiamo di perfetta salute». In tutte queste parole serpeggia il malcontento, la malinconia, la rabbia per una scelta obbligata che non lascia liberi. Allora come oggi, in questa Italia in cui ancora 50mila connazionali nel 2011 si sono spostati all’estero e 112mila meridionali sono emigrati dal Sud al Nord Italia. Allora come oggi, nell’Italia meta dei barconi dei disperati del mare.
A emigrare, all’inizio del Novecento, era «quasi la metà della popolazione». Eppurela letteratura dell’epoca tace, tranne Edmondo De Amicis con il suo Sull’Oceano eGiovanni Pascoli con Italy. Un poema del 1904, ispirato a una vicenda realmente accaduta a un amico del poeta. Nei due canti, si vivono le vicende di una famiglia di emigranti. Protagoniste, attraverso la voce di Battiston – a tratti dolce, a tratti dura e urlata – sono una bimba nata in America e portata in Italia, a Caprona (Pisa) dagli zii per curare la tisi, e la nonna che la accudisce. Pascoli racconta le vicende di un’Italia lontana, ma i sentimenti dell’emigrazione attraversano il tempo. Non cambiano. «Orfani», li chiama.
Ma il racconto non si fonda sull’andata, bensì sul ritorno. Quando di fronte alla porta di casa l’essere migrante è ancora più chiaro, palese. La bambina e il suo papà, tornati in Toscana, non sanno più esprimersi, se non in uno strano dialetto costellato da inglesismi che ne fanno una lingua goffa e grottesca. È la condizione dell’emigrato, senza radici, neppure linguistiche. La comunicazione, anche nella propria terra d’origine, diventa difficile ed emargina. La piccola Molly, a tutti gli effetti americana, appena sbarca in Italia diventa Maria. Non ha più neanche il suo nome. Il suo ritorno non è una riscoperta di sapori e colori tanto desiderati. Per lei il ritorno è fatto di cose tristi. L’Italia è «bad», «black». Per la nonna il suo parlare è come il cinguettio degli uccelli. E Molly finisce per parlare solo con la sua bambola, «doll».
Bisogna tornare, dopo tanti anni, per scoprire «le rughe sul volto della propria madre alla luce del camino». Bisogna tornare per scoprire di avere, anche nella propria terra, «una lingua da disimparare e un’altra da imparare in fretta». Raminghi, appunto. Come “Italy”, la matrigna che lascia andare i suoi figli in cerca di fortuna, che piange, che si arrabbia durante lo spettacolo.
Per raccontare tutto questo a Battiston basta la sua voce. A Testa la sua chitarra. L’immaginazione fa tutto il resto. E i lunghissimi applausi sul finire gli rendono giustizia. Peccato, però, per le tante (troppe) teste bianche tipiche dei teatri italiani. D’altronde, i trenta euro del costo del biglietto di certo non aiutano.