“Non è nei figli che si cercano conferme per sé”

L’indagine della giornalista americana Pamela Druckerman

«Non è un must, come lo sono la moda o il formaggio. Nessuno va a Parigi per approfondire i metodi educativi dei genitori francesi», si interroga scettica Pamela Druckerman, giornalista finanziaria americana trasferitasi, quasi per caso, a Parigi dopo il matrimonio. Nel suo libro, Bringing up bébé, pubblicato lo scorso anno negli Usa e ora tradotto in Italia per Sonzogno (Il metodo maman) non si definisce certo una di quelle americane invasate per la capitale francese. Ne odia il formaggio, ad esempio, e fa a pugni con l’eccessivo distacco delle donne parigine nei numerosi tentativi di farsi un’amica.

Eppure quando l’arrivo della prima figlia, Bean, sconvolge la vita sua e del marito Simon, si accorge di quanto più rilassate siano le madri francesi rispetto alle americane. Che non corrono mai dietro ai figli al parco, non alzano la voce per rimproverarli, chiedono ai bambini non «di fare i bravi» ma «di essere saggi», insegnano loro ad aspettare e sanno prendersi spazi per sé senza sensi di colpa. Frutto di un’educazione eccessivamente rigida? «Si direbbe di no», risponde la giornalista. «I bambini francesi intorno a noi non hanno l’aria intimidita. Sono allegri, chiacchieroni e curiosi. I loro genitori sono affettuosi e premurosi». Anzi, pare invece che l’educazione parigina nasconda una saggezza sconosciuta agli americani.

Ne nasce una ricerca giornalistica che dura tanti anni quanti sono quelli che dalla nascita della prima figlia Bean portano all’arrivo di due gemelli, Leo e Joey. Per scoprire che, mentre le mamme americane si ossessionano alla disperata ricerca di una “teoria” educativa tra libri e riviste, le francesi non fanno altro che seguire un istinto che pare innato, frutto di regole certe e vecchie anche più di Rousseau, citatissimo nel libro dalla Druckerman che si diverte a trovare le corrispondenze tra quanto apprende osservando e i passaggi dell’Emilio o dell’educazione, pubblicato nel 1762 e ancora vivo nel bagaglio culturale dei suoi postumi. Un libro che lo stesso «filosofo tedesco Immanuel Kant», scrive la giornalista, «più tardi paragonerà per importanza» alla «rivoluzione francese».

«Mi rendo conto di essere sulla strada giusta quando scopro una ricerca condotta da un economista di Princeton, secondo la quale le madri di Columbus, Ohio, sostenevano che prendersi cura dei bambini era due volte più sgradevole di quanto sostenessero madri analoghe della città di Rennes, in Francia. Questo conferma le mie osservazioni; c’è qualcosa nel comportamento dei genitori francesi che rende il loro lavoro meno faticoso e più piacevole», scrive la Druckerman. Che non manca di notare il calo demografico europeo, e il «boom delle nascite» in Francia («nell’Unione Europea, solo l’Irlanda ha un tasso di natalità più alto», scrive). Frutto di un welfare sociale molto attento alla famiglia, come sottolinea in molti passaggi, ma non solo.

Le visite dal medico, le cene tra amici, gli spettacoli di marionette della materna diventano l’occasione per osservare i genitori francesi in azione «e scoprire quali regole non dette seguano». E dire «genitori francesi» significa dire «tutti i genitori francesi». «Quando viaggio per la Francia», racconta la giornalista, «scopro che i principi di fondo della classe media parigina su come educare i figli non sono sconosciuti a una madre della classe operaia di una qualunque provincia francese. Anzi, mi colpisce il fatto che i genitori non sappiano esattamente che cosa fanno, ma facciano tutti più o meno le stesse cose».

Finché diventa chiaro che per essere un buon padre e una buona madre non serve una filosofia diversa da quella americana. «Ma un’idea diversa di cosa sia un bambino». Quella che emerge poco per volta tra i capitoli del libro, che affrontano uno per volta i pilastri del Metodo maman. Dal bonjour insegnato fin dai primissimi anni per entrare subito in relazione con gli altri, alla capacità di rimandare le gratificazioni.

Chiudendo però su un punto fondamentale. Quel «ridestare» della teoria di Rousseau che è il punto di partenza in Francia di ogni relazione tra genitore e filgio. «A noi genitori americani (…) interessa di più che i bambini acquisiscano capacità concrete e raggiungano le tappe fondamentali dello sviluppo». Perché «pensiamo che la qualità e la rapidità dei progressi dei bambini dipendano da quello che fanno i genitori». Non così fanno i francesi, la cui saggezza è tutta qui: non cercare nei propri figli una conferma per sè. «Rousseau pensava che bisognasse lasciare ai bambini lo spazio perché il loro sviluppo si dispiegasse in modo naturale».

Alcuni passaggi del libro

Non «fare la brava» ma «essere saggia»

«Sento spesso i genitori francesi dire ai figli di essere sage. Dire “sois sage” è un po’ come dire “fai il bravo”, ma sottintende molto di più. Quando dico a Bean di fare la brava prima di entrare a casa di qualcuno, la tratto come se fosse un animale selvaggio che deve fingersi docile per un’oretta, ma che può tornare a essere selvaggio subito dopo. Sottintendo che fare la brava vada contro la sua vera natura. Quando dico a Bean di essere sage, le dico lo stesso di comportarsi nel modo appropriato, ma le chiedo anche di usare giudizio e di rispettare gli altri. Sottintendo che possiede la capacità di comprendere la situazione e che ha il controllo di sé. E che mi fido di lei».

Nessuna competizione

«Noi americani ci assegniamo il compito di spingere, stimolare e portare i nostri figli da una fase dello sviluppo all’altra. Crediamo che più siamo bravi come genitori, più rapido sarà lo sviluppo dei nostri figli. Nel mio gruppo gioco anglofono, a Parigi, alcune madri si vantano del fatto che i loro bambini frequentino una scuola di musica o un gruppo di gioco in cui parlano portoghese. Spesso queste stesse madri sono riluttanti a rivelare i dettagli delle attività, in modo che nessun altro possa iscrivervi i figli. Queste madri non ammetteranno mai di essere competitive, ma la sensazione è palpabile.

I genitori francesi, invece, non sembrano tanto ansiosi che i figli crescano prima degli altri. Non li spingono a leggere, nuotare o fare di conto prima del tempo. Non cercano di stimolarli a diventare dei prodigi. Con loro non ho la sensazione che – più o meno segretamente – siamo tutti in gara per qualche sconosciuto premio. Iscrivono i figli a tennis, a scherma e ai corsi di inglese, certo, però non si vantano di queste attività come a voler dimostrare quanto siano bravi come genitori. E non ne parlano in modo cir- cospetto, come se fossero una specie di arma segreta. Non iscrivono un bambino a musica il sabato mattina per attivare una qualche rete di neuroni. Lo fanno per divertirsi. Come quell’istruttore di nuoto, credono nell’“aprirsi” e nella “scoperta”».

Le mamme francesi sono tutte Milf

«Quando le racconto dell’espressione inglese Milf («Mom I’d Like to Fuck», mamme che vorrei scoparmi), lei la trova spassosa. Non vi è un equivalente francese. In Francia non esiste a priori nessun motivo per cui una donna non dovrebbe essere sexy solo perché ha avuto figli. Non è insolito sentire un francese dire che essere madre conferisce a una donna un’affascinante aria di plenitude (felicità e ricchezza di spirito). 

Una delle mamme al café, una pubblicitaria carina e dalle forme arrotondate (come me, cerca di “fare più attenzione”), dice di aver smesso di mandare i figli a lezione di tennis, o di qualunque altra cosa, perché trovava che le lezioni fossero “limitanti”. 
“Limitanti per chi?”, chiedo.
“Limitanti per me”, risponde. 
Spiega: “Li porti lì e aspetti un’ora, poi devi tornare a riprenderli. Nel caso della musica, devono esercitarsi la sera… È uno spreco di tempo per me. E i bambini non ne hanno bisogno. Hanno un sacco di compiti, hanno la casa, i gio- chi e sono in due, quindi non possono annoiarsi. Stanno insieme. E andiamo via ogni fine settimana” 
Sono colpita da come queste piccole decisioni e convinzioni rendano diversa la vita quotidiana delle madri fran- cesi. Quando hanno del tempo libero, vanno fiere di riuscire a staccare e rilassarsi». 

Insegnare ad aspettare

«Possibile che insegnare ai bambini a rimandare la gratificazione – come fanno i genitori francesi della classe media – li renda davvero più calmi e determinati? Mentre i ragazzi americani della classe media, che in generale sono più abituati a ottenere subito quello che vogliono, crollano se sono sotto stress?»

«Il fine di tutto questo cucinare torte non è solo di avere un sacco di buoni dolci. Insegna anche ai bambini a controllarsi. Con la sua ordinata sequenza di ingredienti e misurazioni, la preparazione di un dolce è un perfetto esercizio di pazienza. Come lo è il fatto che le famiglie francesi non lo divorano appena esce dal forno, come farei io. Di solito lo preparano al mattino o nel primo pomeriggio, poi aspettano e mangiano il dolce o i muffin come goûter, la merenda pomeridiana francese.
Mi colpisce il fatto che Martine non si aspetti che la figlia sia perfettamente paziente. Dà per scontato che ogni tanto Paulette afferri qualcosa e commetta qualche errore. Ma non reagisce in modo spropositato davanti a questi errori, come tendo a fare io. Capisce che tutto questo preparare torte e aspettare è un esercizio che serve a imparare.

In altre parole, Martine è paziente perfino mentre insegna la pazienza. Quando Paulette cerca di interrompere la nostra conversazione, Martine dice: «Aspetta due minuti, piccola. Sto parlando». È al tempo stesso molto educata e molto rigida. Sono colpita dalla dolcezza con cui lo dice e da quanto sembri sicura che Paulette le obbedirà».

Affrontare il no

«Una domenica mattina, la mia vicina Frederique assiste ai miei tentativi di gestire Leo, quando portiamo i bambini al parco. (…) Siamo sedute sul bordo del recinto e cerchiamo di chiacchierare, ma Leo continua a scappare fuori dal cancello. Ogni volta che lo fa, io mi alzo per rincorrerlo, sgridarlo e trascinarlo di nuovo dentro fra le urla. È irritante e sfiancante.
All’inizio, Frederique guarda il mio piccolo rituale in silenzio. Poi, senza traccia di condiscendenza, dice che se continuo a correre dietro a Leo, non potremo goderci il piccolo piacere di restare sedute a chiacchierare per qualche minuto.
“È vero” dico. “Ma che cosa posso fare?”

Frederique mi spiega che dovrei essere più severa con Leo, in modo che lui sappia che non va bene uscire dal recinto. “Altrimenti non fai che corrergli dietro, non funziona”. Nella mia mente, trascorrere il pomeriggio a rincorrere Leo è inevitabile. Nella sua è pas possible.

La strategia di Frederique non sembra promettere molto bene nel mio caso. Le faccio notare che sono venti minuti che rimprovero Leo. Frederique sorride. Dice che devo rendere il mio “no” più forte e crederci davvero. La volta successiva, quando Leo cerca di correre fuori dal cancello, dico “no” in modo più secco del solito. Lui esce comunque. Io lo seguo e lo trascino di nuovo dentro.

“Visto?” dico a Frederique. “Non è possibile”. Frederique sorride di nuovo e risponde che devo rendere il mio “no” più convincente. Quello che mi manca, dice, è la convinzione che Leo mi ascolterà. Mi consiglia di non gridare, ma di parlare con più determinazione.

Io ho paura di terrorizzarlo. “Non preoccuparti” dice Frederique, per incoraggiarmi. Leo non mi ascolta neanche la volta successiva. Ma a poco a poco mi accorgo che i miei “no” sono sempre più convincenti. Non li dico a voce più alta, ma con più decisione. Mi sembra di impersonare un tipo diverso di genitore.

Al quarto tentativo, quando finalmente trabocco convinzione, Leo si avvicina al cancello, ma – miracolosamente – non lo apre. Mi guarda con diffidenza. Io sgrano gli occhi e cerco di trasmettere disapprovazione.
Dopo dieci minuti, Leo smette di cercare di uscire. Sembra che si sia dimenticato del cancello e si limita a giocare nel recinto della sabbia con Tina, Joey e Bean. Presto io e Frederique possiamo finalmente chiacchierare, le gambe tese davanti a noi.
Sono sconvolta all’idea che Leo all’improvviso mi consideri una figura autoritaria.
“Visto?” dice Frederique, senza autocompiacimento. “Il punto era il tuo tono di voce”.

L’importanza sociale del bonjour 

«Per alcuni genitori francesi, un semplice bonjour non è abbastanza. “Dovrebbero dirlo con sicurezza, è il primo passo di una relazione” mi dice un’altra madre. Virginie, la mamma casalinga magrissima, esige che i figli accentuino la buona educazione dicendo “bonjour, monsieur” e “bonjour, madame”.

Negli Stati Uniti, un bambino di quattro anni non è obbligato a salutarmi quando entra a casa mia. Entra furtivo, compreso nel saluto dei genitori. In un contesto americano, mi starebbe benissimo. Non ho bisogno che il bambino riconosca la mia presenza, perché non lo considero una persona fatta e finita; si trova nel regno separato dei bambini. Magari sento dire meraviglie su quanto sia dotato, ma lui in realtà non mi rivolge la parola.
Quando dici bonjour, mostri che qualcuno ha investito nella tua educazione e che rispetterai alcune regole sociali di base».

Il dottor Cohen e la «pausa»

«“La prima cosa che dico, quando il bambino nasce, è di non saltargli addosso la notte”, spiega Cohen. “Date modo a vostro figlio di provare a calmarsi da solo, non reagite automaticamente, fin dalla nascita”. Forse è la birra (o gli occhi da cerbiatto di Cohen), ma ho un sussulto quando lo dice. Mi rendo conto di aver visto le madri e le baby-sitter francesi prendersi esattamente questo istante di pausa, prima di accudire i bambini durante il giorno. Non mi era venuto in mente che fosse voluto o che avesse importanza. Anzi, mi infastidiva. Non pensavo che fosse giusto lasciar aspettare i bambini».

«Un’altra ragione è che i bambini si svegliano fra un ciclo di sonno e l’altro, e ogni ciclo dura all’incirca due ore. È normale che piangano un po’, finché non imparano a congiungere questi cicli. Se un genitore interpreta automaticamente il pianto come una richiesta di cibo o un segno di ansia e corre a consolare il bambino, questi avrà difficoltà a imparare a collegare i cicli da solo. Ossia avrà bisogno di un adulto che arrivi e lo calmi per riaddormentarsi alla fine di ogni ciclo. I neonati di solito non sono capaci di congiungere i cicli da soli. Ma ci riescono a partire dai due o tre mesi, se hanno l’opportunità di imparare a farlo».

L’autonomia e l’autostima

Qui la chiamano autonomie. Di solito mirano a dare ai bambini tutta l’autonomia che sono in grado di gestire. Inclusa l’autonomia fisica, come nelle gite di classe. E la separazione emotiva, lasciando che si costruiscano un’autostima che non dipende dagli elogi dei genitori e degli altri adulti.
Il punto non è soltanto che gli americani non enfatizzano l’autonomia. È che non siamo sicuri che sia una cosa positiva. Tendiamo a dare per scontato che i genitori dovrebbero essere fisicamente presenti il più possibile, per proteggere i bambini dai pericoli e risolvere le loro turbolenze emotive.

Il giorno in cui vado a leggere una storia in inglese alla maternelle di Bean, l’insegnante prima tiene una breve lezione di inglese. Indica una penna e chiede ai bambini di dire il colore della penna in inglese. Come risposta, un bambino di quattro anni dice qualcosa a proposito delle sue scarpe.
“Questo non c’entra niente con la domanda” ribatte la maestra.
Sono sbalordita. Mi aspettavo che la maestra trovasse qualcosa di positivo da dire, per quanto la risposta si discostasse dall’argomento. Vengo dalla tradizione americana in cui, come spiega la sociologa Annette Lareau, “tutti i pensieri dei bambini sono considerati un contributo speciale”. Riconoscendo un merito ai bambini anche per i commenti più irrilevanti, cerchiamo di dare loro fiducia e far sì che abbiano una buona opinione di sé.

In Francia, questo modo di essere genitori salta all’occhio. Me ne accorgo quando porto i ragazzi ai tappeti elastici interrati dei giardini delle Tuileries, vicino al Louvre. Ogni bambino salta sul proprio tappeto all’interno di un’area recintata, mentre i genitori guardano dalle panchine cir- costanti. Una mamma però ha portato una sedia dentro il recinto e l’ha piazzata proprio davanti al tappeto elastico del figlio. Gli grida: “Wow!” ogni volta che salta. Capisco, ancora prima di essermi avvicinata abbastanza da sentirla meglio, che deve essere anglofona come me». 

Rousseau e il «ridestare»

«Rousseau pensava che bisognasse lasciare ai bambini lo spazio perché il loro sviluppo si dispiegasse in modo naturale. “Voglio che [Emilio] sia condotto tutti i giorni in mezzo a un prato. Una volta là, corra pure a perdifiato, sgambetti, cada in terra cento volte al giorno”. Immaginava un bambino che fosse libero di esplorare e scoprire il mondo e lasciasse che i propri sensi a poco a poco si “ridestassero”. “Si lasci che Emilio corra la mattina a piedi scalzi, in ogni stagione”, scrisse. Rousseau permette a Emilio di leggere un unico libro: Robinson Crusoe».

«Ridestare significa introdurre il bambino a esperienze sensoriali, incluso il gusto. Non richiede sempre un coinvolgimento attivo da parte del genitore. Può avvenire osservando il cielo, annusando la cena mentre viene preparata o giocando da solo su una coperta. È un modo per acuire i sensi del bambino e prepararlo a distinguere esperienze diverse. È il primo passo per insegnargli a essere un adulto raffinato che sa come intrattenersi. Ridestare in un certo senso è un modo per addestrare i bambini a profiter, a immergersi nel piacere e nella ricchezza del momento.

A noi genitori americani – come ha scoperto Piaget – di solito interessa di più che i bambini acquisiscano capacità concrete e raggiungano le tappe fondamentali dello sviluppo. E tendiamo a pensare che la qualità e la rapidità dei progressi dei bambini dipendano da quello che fanno i genitori. Questo significa che le nostre scelte e la validità del loro intervento sono estremamente importanti”.  

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