Pordenone, la provincia con più fallimenti d’Italia

Impresa e lavoro: un modello di sviluppo da rinnovare

Fino a pochi anni fa, in provincia di Pordenone, “fallire” significava “non farcela”. Poi è arrivata la Grande Crisi e il verbo ha assunto un unico significato, ancora più cupo: “chiudere”, abbassare la saracinesca di centinaia di aziende. Dal 2009 al 2012, secondo l’Osservatorio crisi d’impresa di Cerved Group, Pordenone è stata la provincia italiana con la più alta incidenza di fallimenti. In quattro anni, il 5,9% delle società di capitale attive nel Pordenonese (circa 4mila) ha dichiarato default: in termini percentuali nessun territorio ha fatto peggio.

Da dove viene tanta vulnerabilità? Cosa è successo a questa terra in cui soltanto dieci anni fa era quasi impossibile trovare un disoccupato? Le ipotesi delle persone che meglio conoscono la zona – imprenditori, lavoratori, sindacalisti – coincidono. A Pordenone e dintorni non c’è un male specifico. Il problema è il mix micidiale di caratteristiche del territorio: in tempi di vacche grasse spingono l’economia locale alle stelle, e quando c’è crisi si trasformano in zavorre. Sono elementi che, presi tutti insieme, diventano un unico grande monito, un modello industriale da non seguire se si vuole evitare che le Pmi sprofondino.

Il Pordenonese è a vocazione manifatturiera. C’è una miriade di piccole ditte che operano per conto delle grandi aziende presenti sul territorio. Le costruzioni, l’arredo e gli elettrodomestici la fanno da padrone, tant’è che intorno a queste attività sono nati alcuni dei distretti più importanti d’Italia, tra cui quello del mobile di Livenza e quello del coltello.

«In questa zona o battono ferro o tagliano legno: di mortadelle non se ne fanno», sintetizza Massimo Albanesi della Fim Cisl. «Le piccole imprese sono tutte così specializzate che non c’è la possibilità di fare altri lavori. Così, se crolla l’edilizia, va a picco il mobile. Se cala l’automotive, la componentistica si affossa».

Da qualche anno a questa parte, il sindacalista segue sul campo quasi ogni giorno vertenze che si concludono in fallimenti e concordati preventivi: «Molte società – spiega – sono state create da dipendenti di grosse aziende e multinazionali, come per esempio Electrolux, che si sono staccati dalla casa madre per aprirsi una partita Iva e mettersi in proprio. Si tratta di gente che ha cominciato la propria attività dalla cantina. E i più deboli, gli alberi senza radici o marci, sono crollati non appena i loro clienti hanno iniziato ad arrancare e a riportare all’interno alcune produzioni».

La sproporzione nei fallimenti rispetto al periodo pre-crisi fa impressione. In base ai dati della camera di commercio di Pordenone, le imprese che hanno dichiarato bancarotta nel 2007, ultimo anno di relativo benessere, sono state 37. Nel 2008, il conto è quasi triplicato: 80. Peggio ancora negli anni successivi: 91 nel 2009, 106 nel 2010, 88 nel 2011 e 82 nel 2012. E se si considera che la maggior parte delle chiusure riguarda società di capitale, che in genere hanno più ricavi e più dipendenti, il dato è ancora più tetro.

Se chiedi agli imprenditori che hanno fatto default di raccontarti la loro storia, si tappano la bocca. Le linee telefoniche sono staccate e se anche riesci a trovarli, non parlano, forse si vergognano. Ma i lavoratori che hanno vissuto sulla loro pelle queste esperienze non rifiutano di parlare, anzi. «L’azienda in cui lavoravo nel 2009 ha scelto la liquidazione volontaria dopo un anno. Quella in cui ho trovato impiego subito dopo è fallita nel giro di pochi mesi. In questi ultimi tre anni ho poi lavorato in una terza ditta. È andata avanti fino alla settimana di Pasqua, quando sono entrato in cassa integrazione insieme ad altri colleghi», racconta Paolo (il cognome preferisce non dirlo), operaio 35enne della zona di Spilimbergo, nordest del Nordest, che ha sempre lavorato in stabilimenti di verniciatura e imballaggio di prodotti di arredamento.

Una moglie e un figlio a carico («e ce n’è un altro in arrivo»), Paolo vive con il timore che la situazione possa peggiorare. «Se chiudesse anche questa, non sarebbe per niente facile trovare una nuova sistemazione. Fino al 2006 ci si metteva un attimo a trovare lavoro in questa zona, ma ora è il contrario», osserva. La sua analisi è la stessa che farebbe il titolare di una ditta: «Il problema sono i pagamenti. Queste aziende non hanno grossa liquidità alle spalle e nel momento in cui il cliente più grosso ritarda a pagare, o non paga, è finita. Si arriva in un punto in cui riesci più a muoverti, anche perché se vai in banca non ti scontano le ricevute».

Ed ecco qui, dopo la prevalenza della manifattura e il nanismo delle aziende, il terzo elemento che azzoppa così tante attività in provincia: l’impossibilità di accedere al credito. Non una novità in Italia, certo. Ma nel Friuli Venezia Giulia, dove le aziende sottocapitalizzate sono tantissime, lo scenario è ancora più intricato. In tutta la regione i finanziamenti erogati dal sistema creditizio sono diminuiti del 4% solo tra giugno 2011 e giugno 2012 (dati Unioncamere). Cali più vistosi si sono registrati soltanto in Molise (-5,4%) e Sardegna (-5,2%).

«La stretta sul credito è l’aspetto che ci ha penalizzato di più», afferma Alessio Belgrado, segretario di Confartigianato Imprese Pordenone. «Per tentare di reagire, abbiamo studiato tutti insieme un intervento, operativo a breve, che darà ossigeno nel breve periodo agli imprenditori».

L’iniziativa, nata da un patto tra Provincia di Pordenone, associazioni di categoria (tra cui Unindustria, Confartigianato, Confcommercio) e Banca Popolare Friuladria, consiste in un bond di 25 milioni di euro i cui ricavi diventano credito per le imprese che hanno sede in provincia. È una delle formule di finanza “a km zero” che stanno prendendo piede in Italia: i risparmiatori che sottoscrivono le obbligazioni vanno a sostenere direttamente l’economia locale.

Tutto sarebbe meno complicato se i Paesi confinanti non si mettessero anche a fare le sirene verso gli imprenditori del posto. «Avere Slovenia e Carinzia a due passi non aiuta», dice Marco Camuccio, presidente dei giovani di Unindustria Pordenone e manager di Premek, impresa che fa lavorazioni meccaniche di precisione. «In quelle zone c’è grossa disparità in termini di tassazione, costi del lavoro, costi dell’energia, peso della burocrazia e supporto all’innovazione attraverso sgravi per investimenti in ricerca e sviluppo: è normale che a qualcuno venga la tentazione di trasferirsi lì», spiega.

C’è chi pensa, come Arturo Pellizzon, segretario generale della Cisl di Pordenone, che alcuni capitani d’azienda agiscano “con dolo” e scelgano volontariamente la strada della bancarotta per poter riaprire oltre confine: «Oltre a quelli che falliscono perché non possono più farcela, ci sono alcuni imprenditori a cui conviene portare l’impresa al fallimento o al concordato per ripulirsi dei debiti e poi magari ripartire all’estero, ma anche in Italia, con meno dipendenti e avendo restituito ai creditori solo il 20-30% delle pendenze».

Il rapporto con l’estero è fondamentale per la provincia friulana. Più ancora che nel resto dell’Italia solo chi ha saputo sviluppare il canale dell’export è riuscito a mantenersi in piedi. A Pordenone, di ciò che si produce si esporta intorno al 40%, con Germania, Francia e Regno Unito come principali mercati di sbocco. La metalmeccanica si è destreggiata meglio raggiungendo una quota export del 60%, anche se, come precisa Maurizio Marcon, segretario Fiom Cgil di Pordenone, «la quasi totalità delle aziende metalmeccaniche è in crisi e molti lavoratori sono in mobilità».

Il settore che invece fa una fatica tremenda a misurarsi con le esigenze dei mercati stranieri è quello del mobile, che non esporta più del 20% della sua produzione. «Ci stiamo attrezzando solo ora per le esportazioni. Fino a pochi anni fa il mercato italiano assorbiva quasi tutta la produzione: all’epoca, era come se non avessimo bisogno di rivolgere lo sguardo al di là dei confini», ammette Fabio Simonella, presidente della sezione legno-arredo dell’Unione industriali della provincia e membro del cda dell’Asdi del distretto del Mobile di Livenza, che nei suoi 19 Comuni riunisce circa 800 aziende e dà lavoro a 15mila persone.

«C’è stato un calo di consumi impressionante», racconta Simonella. «Il mercato dell’arredamento si è dimezzato. Dal 2008 al 2012 abbiamo perso fino al 60-70% del fatturato nel settore ufficio e nel settore allestimento. Il ramo cucine ha beneficiato degli incentivi per gli elettrodomestici nel 2010 ma finiti quelli si è di nuovo contratto. È ovvio poi che dove ci sono tantissime aziende, come qui da noi, una parte sia costretta a chiudere o addirittura a fallire».

Per invertire il trend c’è solo una carta da giocare: affidarsi alle idee dei giovani. Così almeno la pensa Stefano Medici, consulente immobiliare trentenne e presidente dei giovani imprenditori Confcommercio di Pordenone: «Ci sono troppe barriere all’ingresso per gli under 35 in questa zona. Non c’è accesso al credito perché in banca ti chiedono sempre uno storico per rilasciarti finanziamenti. E allo stesso tempo, nel mercato, vogliono sempre chi ha già esperienza: è un clima orrendo per fare impresa. Se l’amministrazione cominciasse a pensare ai giovani da un punto di vista pragmatico dando agevolazioni e incentivi si creerebbe un territorio fertile per creare nuova imprenditoria. Qui la gente sta morendo: bisogna fare in fretta».  

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