Nella mattinata dell’undici aprile sono scattati i sigilli ai siti degli ex complessi industriali Italsider ed Eternit di Bagnoli. Le indagini affidate ai carabinieri anche del Nucleo Operativo Ecologico di Napoli, e condotte con consulenti tecnici, hanno mostrato che la bonifica in realtà non ci sarebbe stata. Bonifica per cui sono già stati spesi, riporta L’Espresso, 33 dei 75 milioni stanziati.
A rimarcare il dato ci aveva pensato anche la commissione ecomafie, che nell’ultima relazione sulla Regione Campania del febbraio scorso, scriveva di interventi «in gran parte inattuati», «quadro desolante della bonifica del sito di Bagnoli-Coroglio», scarsa «terzietà degli organi di controllo».
L’inchiesta della procura di Napoli riguarda le omissioni e presunti illeciti compiuti nell’ambito della riqualificazione ambientale. Riqualificazione gestita dalla società di trasformazione urbana Bagnolifutura, partecipata da Comune (90%), Provincia (2,5%) e Regione (7,5%), la quale sul sito afferma che la bonfica stessa, eseguita dalla De Vizia Transfer Spa, sia completa «al 65 percento».
Nell’indagine coordinata dai procuratori aggiunti Greco e Fragliasso sono coinvolte ventuno persone fra i vertici della stessa Bagnolifutura, un dirigente del Ministero dell’Ambiente ed altri di comune e provincia, oltre l’Agenzia regionale dell’Ambiente della Campania. Dovranno rispondere di truffa ai danni dello Stato, falso e disastro ambientale, fra gli altri, l’ex direttore del ministero dell’Ambiente Gianfranco Mascazzini, i due ex vicesindaci di Napoli Sabatino Santangelo e Rocco Papa, Mario Hubler (che oggi guida la società Acn per la Coppa America) e Alfonso De Nardo (Arpac, l’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale della Campania).
La truffa ai danni dello Stato sarebbe legata all’illecita percezione di denaro pubblico per una attività di bonifica «virtualmente effettuata» ma che invece ha visto un esborso reale di 107 milioni di euro (leggi la relazione della Corte dei Conti del 2009, che denunciava soldi spesi e ritardi nell’avanzamento della bonifica), così come le accuse di falso riguardano falsi certificati di analisi e false attestazioni di avvenuta bonifica; il disastro ambientale viene invece contestato riguardo l’ulteriore aggravamento delle aree prese in esame e sulla miscelazione di rifiuti industriali, in particolare nell’area su cui dovrebbe sorgere il Parco dello Sport, a seguito di un interramento dei rifiuti.
Impianto a Bagnoli (Flickr – Perrimoon)
Responsabilità che colpiscono i vari livelli della gestione delle bonifiche, da qualche tempo anche al centro della cronaca nazionale, in particolare dopo il caso Ilva di Taranto. E l’Italia è zeppa di ‘casi Ilva’ che riguardano l’inquinamento industriale (basti pensare che nella graduatoria per l’inquinamento prodotto stilata dall’Agenzia europea per l’ambiente, l’Ilva di Taranto del Gruppo Riva non è al primo posto tra le italiane, ma la maglia nera tocca la centrale Enel termoelettrica a carbone Federico II di Cerano, in provincia di Brindisi).
Per capire il funzionamento del sistema bonifiche e il rapporto controllati-controllori, occorre partire dalla distinzione tra i siti interessati, classificati in:
- siti di interesse comunale
(in cui l’ente procedente è il comune stesso che funge da coordinatore e indice un tavolo con provincia, ARPA, Aslo e altri soggetti);
- siti di interesse regionale
(dichiarati tali quando il sito contaminato si trova a cavallo di più comuni. La procedura passa così in mano alla regione);
- siti di interesse nazionale (SIN)
(su cui il coordinamento spetta al ministero dell’ambiente che si avvale di altri enti tecnici e delle articolazioni territoriali come comune, province e regioni).
Per l’Italia quello delle bonifiche ambientali è un tema gigantesco, «però molto recente» spiega a Linkiesta la professoressa Sabrina Saponaro, docente al corso di bonifica dei terreni al Politecnico di Milano «basti pensare che il primo decreto attuativo riguardante le bonifiche risale solo al 1999, poi aggiornato al 2006. E la macchina» prosegue Saponaro «è complessa, e per imparare a guidarla ci vuole tempo». Certo non aiuta una normativa «che non è propriamente chiara, limpida e trasparente» dice ancora la docente «e che molte volte non corrisponde alle necessità reali. Probabilmente si sconta anche che chi scrive le leggi nel settore potrebbe anche non avere il sostegno tecnico necessario. Tanto che alcuni enti devono poi integrare i “buchi” con protocolli specifici».
C’è poi la questione dei costi, sempre molto elevati. «Basti pensare che anche un sito di piccole dimensioni potrebbe avere costi che partono da un milione di euro in su, quindi cifre grosse possono spaventare, ma i costi da sopportare sono alti. È fuor di dubbio che quesi soldi vanno utilizzati per la bonifica e non per altro» spiega Saponaro.
Eppure partendo dalla definizione stessa di “bonifica” data dal Testo Unico Ambientale (TUA), si capisce che le cose non funzionano in questo settore da nord a sud del Paese, da Milano, a Messina, passando per tutti i 57 buchi neri dell’inquinamento italiano. Si legge nel TUA che gli obiettivi degli interventi e delle procedure di bonifica sono «l’eliminazione delle sorgenti dell’inquinamento e la riduzione delle concentrazioni delle sostanze inquinanti o a ridurre le concentrazioni delle stesse presenti nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee ad un livello uguale o inferiore ai valori delle “concentrazioni soglia di rischio”» indicati nello stesso Testo Unico.
Area ex-Ilva ed ex-Italsider, Napoli
Al contrario, le indagini della Procura di Napoli sull’area Italsider hanno invece accertato un «ulteriore aggravamento dello stato di inquinamento dei terreni». Per la professoressa Saponaro «Purtroppo, come in tutti gli enti preposti agli accertamenti, c’è chi lavora con cognizione e buon senso, e chi purtroppo non lo fa, sperperando anche denaro pubblico».
Ma chi controlla i controllori? Quelli che dovrebbero essere terzi ma, come ha rilevato anche la commissione ecomafie del parlamento nel caso di Bagnoli, non lo sono o lo sono scarsamente? Nell’inchiesta napoletana si rileva infatti «l’interscambio dei ruoli tra controllori e controllati e il conflitto di interessi degli enti pubblici». Controllori che entrano immediatamente in gioco (si pensi al ruolo di Ministero, Comuni, Provincia, Regione a ARPA) al verificarsi di eventi potenzialmente in grado di contaminazione dei siti o anche nei casi di contaminazione storica a rischio aggravamento. Da qui le indagini di enti quali Arpac, Comune e Provincia di Napoli, i quali figurano come enti preposti al controllo dell’attività di bonifica. Un «buon senso» spiega un altro addetto ai lavori «che purtroppo la normativa vigente non ha e accade che a bonifica peggiori la situazione e si debba poi finire davanti a un giudice, ed è così, per colpa di qualcuno, che fallisce tutto il sistema delle bonifiche in seno ai conflitti di interesse».
Area dismessa a San Giovanni a Teduccio, Napoli (Flickr – eropelad)
«Si pensi» scrivono i magistrati partenopei «alla innegabile commistione di interessi tra i numerosi enti territoriali coinvolti nel programma di bonifica che rivestono contemporaneamente il ruolo di controllori e controllati, commistione che in più occasioni ha provocato un esercizio quantomento addomesticato dei rispettivi doveri istituzionali». Infatti è proprio lo Stato, come nel caso Ilva, a stanziare i milioni per bonificare e ridurre l’impatto ambientale degli stabilimenti industriali e dei terreni da bonificare. Una patata bollente lasciata progressivamente alle regioni che faticano sempre più a farsene carico.
Oltre alle bonifiche si inserisce nel contesto anche la questione del trattamento e dello smaltimento dei rifiuti, terreno fertile per gli appetiti della criminalità organizzata, una direzione su cui si sono indirizzate le indagini del Noe dei Carabinieiri che avrebbero accertato infatti anche il trasporto di materiale pericoloso da parte di aziende che sarebbero collegate «ad ambienti della criminalità organizzata di tipo camorristico» proprio nella bonifica Italsider.