VERONA – Il tirebouchon si avvita nel tappo, poi ritorna a galla. L’uomo dietro il bancone annusa il sughero e versa il vino nei calici, ruotando elegantemente la bottiglia. Uno, due, tre, mille volte. Anche quest’anno il rito del vino si ripete a Verona, alla fiera del Vinitaly, uguale da 47 anni. Più di 4.250 espositori sparsi su un’area superiore ai 95 mila metri quadrati: la città di Giulietta e Romeo si trasforma ancora una volta nella capitale del vino. Per appassionati, imprenditori, sommelier o anche semplici bevitori curiosi. Nei 12 padiglioni dedicati a tutte le regioni italiane, l’allegria sale insieme al tasso alcolemico. E i tipi da Vinitaly si riconoscono a distanza: c’è chi assaggia con l’aplomb dell’intenditore, magari espellendo il liquido in eccesso nelle eleganti (ma non troppo) sputacchiere di rame, e chi invece butta giù tutto senza pensarci, non senza prima essersi dato delle arie annusando il contenuto del bicchiere per sentire chissà quali profumi. «E ora scatenate l’inferno», dice qualcuno agli amici dopo aver oltrepassato i tornelli d’ingresso. Ma nel corso della giornata, a parte qualche andatura incerta, non ci sono grandi manifestazioni di ubriachezza. Gli spazi sono grandi e forse l’attività fisica per spostarsi da un padiglione all’altro aiuta a smaltire l’alcol.
Il primo dei quattro giorni (uno in meno rispetto a due anni fa) è aperto anche al pubblico. I visitatori, secondo le previsioni degli organizzatori, saranno 140.600. Dietro i banconi degli stand si muovo giovani e meno giovani in giacca e grembiule nero e una strana ciotola d’argento appesa al collo. Che proprio una ciotola non è, spiega Stefano, 30 anni, membro della Fisar, Federazione italiana sommelier e albergatori (la più grande dopo l’Ais, Associazione italiana sommelier). «Si chiama tasta vino, tastevin in francese», dice, «i tondi su un lato servono per l’esame dei vini rossi, le righe sull’altro per l’esame dei vini bianchi. Veniva usato dai nostri antenati per una veloce analisi del vino, noi oggi qui lo portiamo più che altro come simbolo, significa che abbiamo fatto tutti e tre i corsi per il massimo grado di sommelier».
E in effetti di simboli tra gli stand se ne vedono tanti. Le bottiglie sono sempre più curate. Anche i tappi hanno forme diverse. Le etichette sono ricercatissime, i nomi dei vini altrettanto. E non è un caso, forse, che anche la moda si sia accorta del vino. Anna Fendi, fondatrice della maison, ne approfitta per presentare le etichette firmate con il suo nuovo marchio Afv.
«Con tutta la concorrenza che c’è», dice uno dei produttori del consorzio del prosecco veneto mentre indica gli altri stand attorno a lui, «bisogna puntare anche molto sulla bottiglia, sull’immagine, oltre che sulla qualità del prodotto». C’è chi ha scelto una bottiglia di vetro trasparente satinato adatta a esser conservata nel ghiaccio, chi ha chiesto consiglio a un semiologo per disegnare il logo, chi invece ha puntato su una bottiglia con la base quadrata. «Così tutti ci riconoscono», spiega uno degli addetti alla mescita. Lo conferma anche l’enologo della cantina Le Rughe di Conegliano, Treviso, per la prima volta al Vinitaly. «Prima non eravamo pronti al grande salto», dice, «poi abbiamo curato il logo, l’immagine e ora eccoci qui. Abbiamo appena incontrato un importatore dall’Estonia e domani abbiamo appuntamento con un altro che arriva dal Perù».
I 12 padiglioni rimbombano di voci, bottiglie che si stappano, bicchieri che brindano e altri che si rompono in mille pezzi. Una voce in filodiffusione annuncia che «sarà celebrata la santa messa». E molti ironizzano su quale vino sia stato scelto per l’eucarestia. Di tanto in tanto si sentono ai microfoni le voci di sommelier, esperti ed enologi che guidano le degustazioni. «Prendete il primo vino che vi è stato servito. Signora non faccia la timida, mi dica cosa sente». «Mandorla», risponde lei. «Brava». «Vuole “sentire” questo vino?», ripetono in tanti usando il verbo “sentire”, quasi come se il vino attivasse tutti i sensi: il gusto, la vista, l’olfatto, l’udito ma anche la memoria. I nomi, i ricordi, i dialetti si aggirano tra stand illuminati dalle forme moderne.
Il signor Claudio Cantelli, della Collina dei poeti di Sant’Arcangelo di Romagna, Rimini, racconta ai visitatori che il suo rosé è prodotto nella tenuta di Gioacchino Volpe, il poeta che nella sua casa «ha ospitato tanti intellettuali italiani, anche Benedetto Croce». Qualcun’altro spiega che ha recuperato un vecchio calendario dell’Ottocento in dialetto bolognese per dare i nomi ai suoi vini. E poi c’è anche chi ha salvare di usare un vecchio vitigno siciliano, il frappato, che si stava estinguendo. Altra caratteristica per distinguersi dalla concorrenza: la modalità di conservazione. Le classiche botti di legno e quelle in acciaio sono ormai superate dai vini conservati nel mare a 60 metri di profondità, o ad alta quota, a quasi 3mila metri d’altezza.
Ci sono i piccoli produttori, che non vogliono sentir parlare della grande distribuzione organizzata: «Assolutamente no, significa corrompere la qualità», ripetono. Ci sono quelli che invece presentano le bottiglie da mezzo litro che costano meno. «Che in un momento di crisi fanno comodo». E c’è anche chi pensa alle mense e ai fast food sdoganando la bottiglia di plastica da un quarto di litro con tanto di tappo svita e avvita. Una blasfemia, per produttori come quelli che puntano sul marchio «bio» o «biodinamico», quelli della Federazione italiana dei vignaioli indipendenti che espongono il simbolo sul bancone o anche quelli che il mercato italiano non lo prendono neanche in considerazione. «Il nostro è un mercato saturo», dice uno dei produttori di prosecco veneto, «noi vendiamo soprattutto all’estero, in particolare in Cina e Giappone, che oltre al vino rosso ora stanno scoprendo anche le bollicine».
Degli oltre 140mila visitatori, quasi 50mila saranno stranieri, dicono le previsioni. E per il 90% degli espositori il Vinitaly è l’occasione per farsi conoscere oltre confine e chiudere i contratti principali che saranno la base per tutto l’anno. In un momento di crisi del consumo interno, sceso sotto la soglia dei 40 litri pro capite all’anno, l’export sembra l’unica via d’uscita per le aziende italiane. Dopo il focus dello scorso anno sul Giappone, dove il costo minore dei vini italiani rispetto a quelli francesi sta avvicinando i giovani alle nostre bottiglie, quest’anno si punta sulla Cina, dove invece il vino italiano è schiacciato dai marchi d’Oltralpe. Concetto ripetuto anche dal ministro delle Politiche agricole Mario Catania, presente all’inaugurazione della fiera: «Siamo fortissimi sui mercati storici, come Stati Uniti e Germania, ma siamo indietro nei nuovi mercati come Asia e Cina. Dobbiamo lavorare per recuperare terreno, dobbiamo fare meglio sistema, e non disperdere le risorse».
Per la prima volta negli stand di Verona è presente una delegazione ufficiale del ministero del Commercio della Repubblica popolare cinese: è qui che si concentra l’export enologico internazionale, ripetono tutti gli espositori, con 190 milioni di acquirenti online. Tra i buyer che si aggirano da una degustazione all’altra, ci sono molti orientali. Coreani, cinesi e giapponesi. Ragazzi ben vestiti con gli occhi a mandorla si muovono tra le bottiglie con penna e taccuino, degustano il vino seguendo una gestualità ben precisa. Molti sono iscritti alle associazioni italiane di sommelier. Fanno roteare il bicchiere sul bancone, osservano il colore, infilano il naso nel calice più di una volta, a piccoli sorsi spostano il vino in bocca da una guancia all’altra e poi prendono appunti. Qualcuno usa l’inglese, altri preferiscono gli ideogrammi. Appuntano i nomi dei vitigni, ci si accorda sugli ordini e le quantità da importare.
Ma non proprio tutti gli espositori di casa nostra sono pronti a confrontarsi con gli acquirenti stranieri. Una bella signora cinese con una camicia gialla ha appena compiuto il rito della degustazione in uno stand del padiglione pugliese. Vorrebbe sapere dove viene conservato il negroamaro che ha assaggiato, ma al suo interlocutore proprio non viene in mente come si traduca “acciaio” in inglese. Dopo qualche secondo di esitazione, arriva in soccorso il più giovane dell’azienda. «Steel», le dice. E la invita ad accomodarsi ai tavolini, mentre lei, non capendo bene quello che sta succedendo, continua a sorridere imbarazzata. Più attrezzato il bancone del vino dell’etna Thalìa (guarda, in dialetto siciliano). A servire il vino c’è invece una giovane alta e bionda, dai tratti nordici, che è anche socia della cantina. «Anne-Louise», è scritto sul cartellino attaccato alla camicia. Al signore inglese che le si avvicina con tanto di taccuino spiega in inglese fluente tutta la storia di quel vino prodotto ai piedi del vulcano, dalle caratteristiche della terra nera etnea all’apporto del vento di mare. «Thalìa», dice, «is a word of Sicilian dialect that means “look there”» (Thalìa è una parola del dialetto siciliano che significa “guarda là”).
Le navette vanno e vengono dalla stazione. C’è sempre qualcuno che non riesce a entrare. Gli autobus sono pressati come scatolette di sardine. I treni per Milano, Torino e Bologna altrettanto. Qualcuno soffia nell’etilometro fai da te che ha portato da casa, qualcun’altro si addormenta assopito dal vino. C’è chi dice: «Evviva il Vinitaly, number one». E chi decanta, misteri del vino, le gesta calcistiche di Bobo Vieri.