In una piovosa domenica pomeriggio, Javier Zanetti sta tornando a Milano per farsi dire quello che tutti sanno, che tutti temono. Lui, capitano di mille battaglie, ha dovuto lasciare i suoi compagni a sciogliersi al sole palermitano, a causa di una botta alla caviglia. È solo e pensa, Javier. Forse una stagione così, in tanti anni, non l’ha vista mai. Nemmeno quando l’Inter cambiò cinque allenatori in un anno. O neanche quando naufragarono contro il Villareal, o l’Alaves. Mille pensieri gli si affollano in testa. Mourinho come Renzi: se ci fosse stato lui… E quella volta contro il Valencia? Che botte da orbi. Tutti a menarsi e lui a cercare di dividere i suoi da quel mucchio selvaggio. Hodgson che non gli fa tirare quel rigore… Un messaggio interrompe il film di una carriera: «Ahò, non fare scherzi, ti aspetto in campo». Non c’è neanche bisogno di vedere il numero, è Francesco Totti. Tra grandi ci si capisce. Qui Zanetti matura la convinzione definitiva: altro che tendine d’Achille, macché 40 anni, io torno in campo. Dovesse passare una stagione. Un capitano non abbandona mai la nave che affonda.
Non è bastato un contrasto duro con Salvatore Aronica per fermarlo. E così, all’ingresso dell’ospedale, spiega: «Sono qui solo per cambiare le gomme». Il suo fisico gli ha permesso di arrivare integro fino ai 39 anni. Quando era ragazzo, dopo essersi innamorato del futbol grazie ai gol di Mario Kempes, voleva giocare ma era troppo esile. Il padre, un muratore di origini friulane, se lo portò con sé in cantiere. Ad Javier si ispessirono i muscoli e la cultura del lavoro. Passato alla squadra del Talleres, ma senza un contratto, per aiutare la famiglia di mise a consegnare il latte. Non si abbandona la famiglia, non si abbandona una passione. Dalle quattro alle otto il latte, poi il pallone. Il Talleres vide che era cosa buona e gli offrì un contratto. Qui si beccò il soprannome di Tractor, trattore, per le sue gambe possenti.
Gli serviranno, quelle gambone. Quando arrivò a Milano, venne considerato come un rincalzo. La vera star era Sebastián Rambert, che avrebbe dovuto ricoprire di gol la nascente Inter di Massimo Moratti. I due arrivarono nell’agosto del 1995 nella vecchia sede di via Durini. «Scusi, è qui l’Inter?», chiese il ragazzone con la mascella quadrata e i capelli scolpiti. Non fosse che accanto a lui c’erano Rambert e il monumento Giacinto Facchetti, il portinaio lo avrebbe allontanato in malo modo, scambiandolo per un rampante venditore porta a porta. I tre fecero ingresso in sede, ma uno di loro uscirà quasi subito. L’Avioncito collezionò due presenze: contro il Lugano in Coppa Uefa e in Coppa Italia contro il Fiorenzuola. A gennaio volò in prestito in Spagna mentre Zanetti restò alla Pinetina, dove cominciò fin da subito a fermarsi più dei compagni. Moratti, così come il suo omologo del Talleres, approvò: lo aveva voluto lui a Milano e il suo spirito di attaccamento alla maglia gli ricordò quello dei ragazzi della Grande Inter creata dal padre Angelo.
Eppure, nonostante la passione, l’Inter non decollò. Oggi nessuno si azzarderebbe, ma all’epoca anche Zanetti finì tra i criticati. Cominciarono ad imputargli di non correre abbastanza, di uscire dal campo con la maglietta asciutta, di amare troppo il pallone. E poi lo accusarono di arroganza, quando nella finale di Coppa Uefa contro lo Schalke 04, Roy Hodgson non gli fece tirare uno dei rigori della cinquina sostituendolo e lui si infuriò davanti a tutta San Siro. Ma il lavoro paga: lo ha imparato al cantiere con il padre, negli anni in cui tifava Independiente. E Facchetti, che contro quella squadra vinse un’Intercontinentale, spesso gli raccontò della fatica fatta contro gli argentini. Zanetti capì di avere trovato un mentore.
Da qui cominciò il suo cammino trionfale all’Inter. A Parigi, il 6 maggio del 1998, si riprese quello che Hodgson e i tedeschi gli avevano tolto. Gol in finale e Coppa Uefa in bacheca. L’anno dopo, il 29 agosto, un’altra data storica: Javier Zanetti divenne contro l’Hellas il capitano dell’Inter. Bergomi era stato costretto al ritiro pur di non dover giocare con un’altra casacca e Pagliuca se ne era andato: toccò al terzo più anziano. Età a parte, Javier aveva ampiamente meritato di meritare la fascia. Come quando recuperò una gara in casa contro la Salernitana con un gran tiro da fuori in pieno recupero e a momenti il telecronista nerazzurro Roberto Scarpini si strozzava nell’esultare. E dimostrò di meritarla dopo. Ad esempio resistendo alle sirene del Real Madrid, che voleva ripetere l’affarone di Roberto Carlos. Lui restò per tenere a galla l’Inter in tempeste dove altri avrebbero mollato. Ricordarle, per un’interista, è come sgranare un rosario durante la Passione: Zanetti guidò i nerazzurri durante l’anno dei 5 allenatori (tra cui di nuovo Hodgson), nel mezzo dei disastri europei contro l’Alaves e il Villareal, diede la spalla a Ronaldo il 5 maggio del 2002 e fece da faro negli anni di transizione da Cuper a Zaccheroni. Sempre lì, lì nel mezzo, finché ce n’hai.
Ma se il lavoro paga, il “crimine” (vedi alla voce Calciopoli) no. Zanetti, dopo averne viste di ogni, si riprese tutto come quella notte al Parco dei Principi: due scudetti sul campo con Mancini, uno vinto grazie aun suo gol contro la Roma a San Siro, poi Mourinho e la notte di Madrid. Pianse come un bambino, Zanetti, mentre alzava quella coppa che mancava da 44 anni. La prima Coppa Uefa l’aveva alzata un altro grande come lo “Zio”, mentre la prima Coppa Italia dell’era Mancini era toccata a Cordoba, perché Javier aveva dovuto rispondere presente a una chiamata in Nazionale. Sarà proprio l’Albiceleste il suo cruccio: con la maglia del suo Paese non riuscirà a centrare il Mondiale e Maradona gli negherà la partecipazione alla Coppa del Mondo in Sudafrica. Troppo vecchio, pensò El Pibe.
Chissà se lo pensa anche ora che Zanetti vuole tornare. Lo ha promesso, il Capitano: tornerà. I nerazzurri dovranno fare a meno di lui per 7-8 mesi forse. Ma lui non ha voluto piegarsi a quel Dio del calcio che, forse mosso a pietà dopo una stagione orrida per l’Inter, ha voluto escluderlo da un pietoso finale di stagione. Eccola, la grandezza di Zanetti. Se l’Inter è pazza per definizione, lui è stato a volte più pazzo di tutti nel credere in questa maglia quando tutti attorno nuotavano al largo. Ora ci saranno un’operazione, i tempi di recupero, più ore da dedicare alla “Fondazione Pupi” gestita con la moglie Paula. Poi, quando arriverà il momento, tornerà ad indossare i gradi. Un capitano non abbandona mai la nave che affonda.