Acquisti di massa: così i cinesi trasformano i mercati

Due storie esemplari per capire l’impatto globale dei consumatori del dragone

PECHINO – «Cinque anni fa sarebbe stato impensabile. Il modo in cui i diamanti sono venduti ai consumatori in Cina è totalmente cambiato». A parlare è Anish Aggarwal, un consulente nel mercato delle pietre preziose con base ad Anversa, che si confida con Bloomberg.
L’intuizione hegeliana-marxista secondo cui la quantità, quando è davvero tanta si trasforma in qualità, trova la sua perfetta rappresentazione concreta nell’impatto dei consumatori cinesi sui mercati. Ci sono due recenti storie nel settore del lusso che sono, da questo punto di vista, esemplari.

La prima riguarda i diamanti, appunto. Negli ultimi due anni, il loro prezzo è esploso a livello mondiale al traino dei consumi in crescita oltre Muraglia. Il fatto notevole è tuttavia un altro: dato che il consumatore cinese è più propenso a comprare pietre di qualità media piuttosto che i diamanti purissimi, il prezzo dei primi è aumentato del 24 per cento mentre quello dei secondi “solo” del 7, nel periodo considerato.

I diamanti Si (ovvero Slightly included, con qualche impurità) vendono più di quelli If (Internally flowless, purissimi) perché «il tabù culturale di dover acquistare il più bel diamante si è rotto», dice Aggarwal. In pratica, la comparsa sul mercato del nuovo ceto medio cinese, che si affianca ai ricchi-ricchissimi che lo presidiavano prima, determina un cambiamento della natura stessa del mercato.

Ovviamente non si arriverà mai all’assurdo per cui i diamanti impuri finiranno per costare più di quelli puri: a oggi un impeccabile top white da un carato costa circa 29mila dollari, mentre una pietra Si delle stesse dimensioni e colore si aggira sui 7.200 dollari (dati del rivenditore Blue Nile, citati da Bloomberg); e ovviamente, qualora i prezzi dovessero avvicinarsi, la massa dei consumatori si precipiterebbe a comprare le pietre migliori, causando un nuovo allargamento della forbice.

Tuttavia, la ricaduta sul fronte dell’offerta è considerevole fin da ora. L’aumento della domanda mette pressione sulle forniture e i produttori faticano a trovare nuove miniere, mentre quelle vecchie si esauriscono. I diamanti più accessibili, vicini alla superficie, sono stati spazzolati via e i costi di produzione aumentano. Così un buon escamotage sembra quello di produrre sempre più diamanti di qualità media (chiamarli “di massa” ci pare azzardato), il cui prezzo è pompato dalla domanda cinese e, sempre più, anche da quella indiana (gli acquirenti dei due giganti asiatici rappresentano infatti già oggi circa il 20 per cento della domanda globale, che si prevede salirà al 28 entro il 2016).

Ora, perché i cinesi comprano così tanti diamanti? È semplicemente un fatto quantitativo (sono tanti, sono sempre più ricchi, basta che si comportino come i consumatori di qualsiasi altro Paese e lasciano il segno), oppure c’è dell’altro?
Il sospetto è che, come nel caso di altri consumi di lusso (vedi il vino d’alta gamma), si sia innescato un meccanismo speculativo, una bolla dei diamanti simile alla bolla immobiliare.

I cinesi hanno poche occasioni per investire e i soldi depositati in banca maturano interessi più bassi dell’inflazione, perché i tassi sono controllati per scelta politica. Così, quando una merce tira e promette di tirare anche in futuro, i risparmi vengono veicolati verso il suo acquisto in grandi quantità: soprattutto se è una merce che non si deteriora, come una casa o, appunto, una pietra preziosa.
Il problema è che la ricerca dei soldi facili finisce anche per fagocitare investimenti che potrebbero essere destinati a migliore causa: innovazione tecnologica, servizi avanzati, imprese high-tech. Si prendono soldi a prestito (chi può farlo) per speculare, non per “creare”.
E quindi ogni improvvisa fonte di profitto rischia di diventare una bolla e un freno per la modernizzazione dell’economia cinese.

Tuttavia, il comportamento anarchico dei consumatori cinesi e il loro impatto in quanto moltitudine possono anche svolgere funzione antispeculativa. E arriviamo al secondo esempio, che riguarda questa volta l’oro. A fine aprile, è successo infatti che la corsa al metallo giallo dei cinesi ha messo in crisi le strategie dei grandi speculatori internazionali.

Il prezzo dell’oro era in calo da tempo sui mercati, a causa delle short selling effettuate da grandi fondi speculativi. Sono le cosiddette «vendite allo scoperto», che consistono nel cedere un certo asset (azioni di imprese o futures sulle materie prime come l’oro appunto) in quantità tale da determinarne il crollo del prezzo sui mercati, per poi ricomprarlo immediatamente dopo: il guadagno deriva dalla differenza tra il prezzo a cui si è venduto l’asset (metti 100) e quello a cui lo si è ricomprato (metti 80).

Il 15 aprile, il future sull’oro di giugno è sceso del 9,3 per cento, fino a un prezzo di 1.361,10 dollari per oncia, la perdita giornaliera più ripida in quasi 30 anni. In conformità con il mercato internazionale, anche al Shanghai gold exchange e al Shanghai futures exchange il prezzo è sceso. Ed ecco che milioni di piccoli investitori cinesi si sono precipitati a comprare oro fisico, remando in senso contrario rispetto ai venditori short.

I giornali hanno immediatamente identificato le protagoniste di questa controffensiva nelle mamme cinesi, che hanno colto al volo l’occasione di comprare oro a basso prezzo per preparare come si deve i matrimoni delle figlie.
Il prezzo ha così ricominciato a salire e il 1 maggio il future sull’oro di giugno si era assestato su 1.446,20 dollari per oncia, il 6 per cento al di sopra del prezzo del 15 aprile.
«Le madri cinesi spingono in alto il prezzo dell’oro», titolava il South China morning post di Hong Kong, secondo cui le signore in questione hanno «battuto Wall Street» e «sventato il piano dei guru finanziari, che vendevano allo scoperto il metallo prezioso nella speranza di spingerlo più in basso».

Le vendite short funzionano perché solo i grandi fondi speculativi hanno le risorse necessarie per spostare (cedere e ricomprare) grandi quantità di prodotti finanziari. Attaccano tutto ciò che offre occasione di speculazione, dalle quotazioni del granoturco ai debiti sovrani degli Stati, e l’Europa ne sa qualcosa. Ma in termini di grandi quantità anche le signore cinesi possono dire la loro e hanno per una volta sconfitto gli gnomi di Wall Street, in un tiro alla fune virtuale.

Quelli dei diamanti e dell’oro sono due esempi diversi tra loro ma simili su un punto: l’impatto quantitativo dei consumatori cinesi determina dei cambiamenti qualitativi sui mercati.
Nell’Anti-Dühring (1877), Frederick Engels scriveva che «la cooperazione di un numero di persone, la fusione di molte forze in un’unica, crea, per usare la frase di Marx, un nuovo potere, che è essenzialmente diverso dalla somma delle sue forze prese separatamente».

Oggi, quel «nuovo potere» che va oltre la mera somma degli elementi che lo compongono non è forse più il proletariato europeo identificato da Marx, ma il consumatore asiatico che sempre più osserviamo nei centri commerciali, nei ristoranti, negli hotel, nelle località turistiche. E anche nelle gioiellerie. 

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