Lucia prepara il pranzo alla sua “nonnina”. Controlla che la casa sia in ordine, che nel frigorifero ci sia il necessario per la cena, aspetta che chiuda la porta, la saluta e se ne va. Stella, invece, spegne ogni sera la luce dell’abat-jour sul comodino di un anziano insegnante in pensione, tira su le coperte e cerca di prendere sonno sul divano della stanza accanto. La stessa cosa fanno Francesca, Salvatore e tanti altri. Assistenti familiari che curano i nonni d’Italia. In una parola (poco amata da chi questo lavoro lo fa): badanti. E in un momento di crisi occupazionale, prendersi cura degli anziani è un po’ l’ultima spiaggia per tanti, dai pensionati al verde ai giovani laureati che non riescono a trovare lavoro.
Il nostro Paese è secondo al mondo dopo il Giappone per longevità, con un’aspettativa di vita media di quasi 82 anni (81,86). Gli over 65 sono il 20% della popolazione. Se si vive di più e gli anziani aumentano, cresce anche il bisogno di assistenza. Secondo l’Inps, nel 2012 l’aiuto domestico è aumentato dell’8,37 per cento. Lo scorso luglio, colf e badanti regolari erano 783mila. Senza contare i circa 450mila irregolari che secondo l’Istat ogni giorno sono impiegati nelle case italiane. Non solo stranieri come si potrebbe pensare. Nonostante la maggior parte dei collaboratori familiari sia composta da lavoratori extracomunitari (420.628), nelle file degli assistenti per anziani ci sono anche molti italiani. E sempre più specializzati.
«Esistono diversi tipi di richieste da parte dei familiari», spiega Annalisa Di Carlo, responsabile della cooperativa “Sereni insieme”, agenzia che offre servizi di assistenza domiciliare agli anziani di Milano. C’è la «badante fissa», che garantisce una copertura continuativa 24 ore su 24. «E questo lavoro è svolto tipicamente da cittadini dell’Est Europa o filippini». Poi c’è «l’assistenza ultraspecializzata», che necessita di qualifiche specifiche, dall’ “asa” (ausiliario socio assistenziale) all’ “oss” (operatore socio sanitario), fino all’infermiere. «Negli ultimi anni è aumentata l’incidenza di demenze senili, Alzheimer e morbo di Parkinson. Per questo sono richieste specifiche figure professionali. Si tratta tipicamente di italiani, molti giovani del Sud Italia, ma anche peruviani ed ecuadoregni, che hanno un sistema di cura dell’anziano simile al nostro».
Se in un momento di crisi il portafoglio langue, le famiglie nonsono più disposte a spendere molto per la cura dei propri cari. In tanti vengono licenziati (non è un caso che in fila ai centri per l’impiego si incontrino molte ex badanti), o assunti part time. E il nero, che tanto ha caratterizzato questo lavoro, torna a crescere. In barba alle sanatorie, che negli ultimi anni avevano permesso l’emersione di parte del lavoro sommerso. «Non metto niente da parte, ma almeno riesco a campare», dicono in tanti. Così si collezionano poche ore al giorno tra una famiglia e l’altra, per arrivare a mettere insieme 600-800 euro al mese. Con qualche innovazione: «Ci stanno contattando delle agenzie rumene», racconta la dottoressa Di Carlo, «che assumono le ragazze direttamente in Romania a 200 euro al mese per venire a lavorare da noi. Le famiglie italiane accettano perché spendono poco, ma si trovano davanti ragazze di 18 anni che non parlano l’italiano e non sanno neanche come si cambia un pannolone».
Perché il lavoro di badante è spesso visto come l’ultima spiaggia per chi ha tentato di fare altro. «Quando le hai provate tutte, non ti resta che andare a curare gli anziani» dice Di Carlo. «In questo momento di crisi, qui in cooperativa c’è un andirivieni continuo». Persone fuori dal mercato del lavoro che si improvvisano badanti. Non solo: «Ci sono anche pensionati che si offrono come badanti in nero perché con la pensione non riescono ad arrivare a fine mese. O giovani 30-35enni con tanto di laurea e master che arrivano qui sfiduciati dopo aver cercato lavoro in lungo e in largo». Ma, precisa Di Carlo, «non tutti possono farlo. Devi sapere prenderti cura dell’igiene dell’anziano, conoscere le tecniche di immobilizzazione quando diventano violenti, non sbottare se dicono delle parolacce nei casi di demenza senile».
Francesca
Francesca è nel suo giorno libero. Ha una gonna lunga colorata, capelli biondi, occhi azzurro intenso e una corporatura che ricorda le donne dell’Est Europa. «In tanti mi scambiano per russa o ucraina quando vado ai colloqui di lavoro», dice ridendo. Lei è nata 46 anni fa a Como e ha origini venete. Ogni giorno si divide tra quattro famiglie, lavorando come assistente 40-41 ore a settimana. Alle spalle ha diverse esperienze, dalle case di riposo per anziani agli istituti per la cura di patologie mentali, fino all’assistenza domiciliare. In tasca, due qualifiche, una da assistente socio assistenziale («asa») e un’altra da operatore socio sanitario («oss»). Due sigle che rassicurano le famiglie italiane se i pazienti sono anziani malati di Parkinson, Alzheimer o demenze senili.
«Quando si entra in una casa, bisogna farlo in punta di piedi. Entri nelle vite di queste persone, per loro sei un estraneo, eppure spesso ti devi occupare del loro corpo, dalle cure mediche all’igiene». All’inizio c’è una fase di “studio” reciproco, per conoscersi. Non sempre va bene. L’anziano è «schematico», dice Francesca, «attento ai propri oggetti anche in maniera maniacale». Ma «quando si arriva a fidarsi l’uno dell’altro, si crea grande empatia». Altre volte è più dura. «Soprattutto nella fase terminale: diventano difficili, cattivi, insofferenti, ma non bisogna mai perdere la calma».
Le sue giornate lavorative si ripetono uguali di giorno in giorno: «Si arriva in casa del paziente, si pensa all’igiene, si fanno alcuni mestieri di casa se ce n’è bisogno, si prepara la colazione, lo si aiuta a vestirsi». E poi le attività per «favorire la riabilitazione della memoria e del fisico», dalla lettura del giornale alle passeggiate nel parco, e anche la spesa al supermercato. Quello che varia lo “schema” giornaliero è il «rapporto con l’anziano». Che «dev’essere di grande rispetto», ribadisce più volte Francesca. «Questo lavoro non è per tutti, non puoi portarti i tuoi problemi personali al lavoro. Ci deve essere il giusto distacco: non bisogna essere né troppo tecnici né troppo assillanti». Il suo ricordo più intenso: «Quando in ospedale un anziano in coma si è risvegliato per cinque minuti. Accanto a lui c’ero solo io, sono stata l’unica a salutarlo».
Tra una famiglia e l’altra, con quattro contratti di collaborazione a progetto, Francesca guadagna «dalle 800 alle 1.500 euro. Dipende dalle ore che faccio». Pensare che lei, figlia di un medico, aveva anche cominciato a frequentare la facoltà di lettere all’Università di Milano. Ma poi ha mollato dopo due anni. «Mio padre è comunque contento», dice serena, «prima o poi tutti potrebbero avere bisogno di professioni come la mia». Usa un linguaggio forbito, Francesca. E ogni tanto aggiunge qualche termine inglese (caregiver, ad esempio, per descrivere il suo lavoro). Ma non si definisce mai “badante”. «Il termine badante non piace, la badante è quella che sta tutto il giorno in casa dell’assistito, che fa di tutto, dalle pulizie all’igiene». Lei invece è una «professionista». Anche se, ammette, il suo «lavoro è reputato di bassa qualità. È considerato sporco, ha a che fare con l’intimità delle persone, con il pudore. Ma io sono molto contenta». E per farlo al meglio, Francesca continua a seguire corsi di aggiornamento. «A frequentarli non ci sono solo italiani», racconta, «ora anche indiani e filippini, un tempo dediti soprattutto alla pulizia della casa, hanno capito che bisogna specializzarsi per l’assistenza agli anziani».
Stella
Stella è nata 37 anni fa a Bari. Da sei vive a Milano, dove è venuta a cercare fortuna come badante. Prima ha seguito un corso per prendere la qualifica da operatore socio sanitario. «Per pagarmi la scuola lavoravo come parrucchiera», racconta. Dopo il tirocinio è arrivato il primo lavoro a termine in una casa di riposo per anziani. Fino all’approdo all’assistenza domiciliare. «Perché essere assunti nelle strutture è difficile». L’anno appena passato, però, per lei è stato tutt’altro che semplice. Con un solo anziano da assistere per quattro ore al giorno, lo stipendio era di soli 450 euro al mese. «Ma dovendo pagare 500 euro di affitto non riuscivo più a tirare avanti», racconta. «Ho cominciato ad accumulare debiti con il proprietario di casa e il mio frigorifero spesso era vuoto. A volte mi capitava di mangiare solo due biscotti al mattino a casa dei pazienti».
È a questo punto che Stella accetta un ingaggio in nero. Niente contratto, niente tasse, niente contributi. «Che alle famiglie costa meno, in questo periodo di crisi molti rifiutano il contratto regolare». Il nuovo lavoro le frutta mille euro al mese e consiste nell’assistenza sei notti su sette a un anziano malato di Alzheimer. «Alle sette del mattino stacco da lì, passo da casa a fare colazione e poi vado dall’altra famiglia», racconta, «all’ora di pranzo finisco, vengo a casa e dormo». Al primo lavoro in “nero”, negli ultimi mesi se n’è aggiunto anche un altro, nel week end. E alla fine «sono libera solo la domenica pomeriggio. Ma almeno riesco a mettere su uno stipendio dignitoso».
Stella è stanca. E si vede dalle occhiaie che le circondano gli occhi neri: sei notti sul divano su sette, sempre allerta «non appena si accende la luce», non sono proprio una passeggiata. «Mi prendo cura degli altri, ma non riesco a prendermi cura di me», dice indicando il disordine nel salotto del suo appartamento. Sulla credenza c’è ancora l’albero di Natale addobbato. «Lo tengo da quando sono venuti i miei genitori durante le vacanze di Natale, lo ha decorato mia madre. L’ho lasciato lì per sentirli più vicini».
Eppure, nonostante la stanchezza, lo scarso tempo libero e la casa in disordine, Stella dice di essere serena. Con il suo inconfondibile accento barese, racconta con gli occhi lucidi: «Dopo aver estinto il debito con il proprietario di casa, ho comprato ben sei paia di pantaloni. È stata una grande soddisfazione, meglio di qualsiasi happy hour con le amiche. E il mio frigorifero ora è sempre pieno». Nel salotto, in un angolo, ci sono due pacchi. «Sono i regali di Natale per la famiglia per la quale lavoravo prima», dice, «ma ancora non ho avuto tempo di darglieli». Perché «si creano bei rapporti, che restano anche quando l’assistito muore».
Diverso il lavoro nelle case di riposo: «Lì rapporti sono superficiali, ci sono dai 23 ai 26 pazienti per piano con cinque operatori e un infermiere. A domicilio si costruisce un rapporto umano: devi capire, farti conoscere. Non puoi pretendere di entrare nella vita di un 80-90enne abituato a comandare e impartire le lezioni». Certo, all’inizio non è semplice. «La signora dove vado al mattino mi diceva: “Maledetta, devi uscire fuori da casa mia”. Quando di recente sono tornata a Bari per una settimana ha detto: “Come faccio ora senza di te?”. E a momenti piangeva. Ma ci sono voluti otto mesi. Devi inghiottire tante cose, morderti la lingua. All’inizio litigavamo anche per il cambio settimanale delle lenzuola». Anche perché «per conquistarti la fiducia, soprattutto dei parenti, devi allontanare i fantasmi delle notizie che si sentono al telegiornale, dai furti alle violenze delle badanti. E allora vedi il figlio che di tanto in tanto controlla che ci sia tutta l’argenteria di mammà, che il conto in banca sia in ordine, che l’oro sia al suo posto».
Lucia
Lucia ha un giubbotto rosso e le mani screpolate. Un po’ di rossetto le copre le labbra e un ombretto turchese le abbellisce le palpebre stanche dopo una mattinata di lavoro. Ha 53 anni, è nata a Napoli e da trent’anni vive a Milano con il marito. Alle spalle un passato di sofferenza per la mancanza di figli, «ricompensato dal mio lavoro di assistenza e cura degli anziani», dice. Lucia parla dei suoi «nonnini», come li chiama lei, come se fossero suoi parenti. «La regola che ti insegnano è quella di mantenere la giusta distanza», dice, «ma io non riesco a non farmi coinvolgere». Sul cellulare conserva la foto dell’ultimo anziano che ha accudito, morto qualche mese fa dopo una lunga malattia. La mostra fiera e dice: «Guarda com’era bello. Per me era diventata una seconda famiglia. L’altro giorno è stato il suo compleanno. Ho telefonato lo stesso alla moglie per farle gli auguri».
Ora la sua “nonnina” è solo una: ha 91 anni e da un anno ogni mattina Lucia le dà il buongiorno, le prepara la colazione e il pranzo. «È molto arzilla», dice, «si lava da sola, ma quando prepara da mangiare da sola è pericoloso perché rischia scottarsi». Il rapporto con lei non è semplice. «La nonnina ha una fissazione quasi maniacale per la pulizia: non vuole che vada in bagno, per bere ho il mio bicchiere e in casa devo usare per forza le pantofole. Ne ho due paia: uno per andare sul terrazzo, l’altro per stare dentro». Ma «non riesco ad arrabbiarmi. È piccola e magra, il mio lavoro è quello di accudirla. Ogni giorno, quando vado via, aspetto che chiuda bene alla porta. Non sempre il figlio riesce a passare per farle un saluto».
Anche per Lucia la giornata è scandita da gesti rituali. «Alle 9 e 30 arrivo, firmo il foglio della presenza, e poi aspetto nell’ingresso per sapere cosa vuole fare, se preferisce fare una passeggiata o andare al supermercato a fare la spesa». All’inizio la “nonnina” «non mi toccava neanche», racconta, «quando uscivamo poggiava solo il polso sul mio braccio, non la mano. Ora quando c’è un gradino o un ostacolo mi stringe forte. Bisogna essere pazienti per guadagnarsi la fiducia dell’anziano». Con lei Lucia resta fino all’ora di pranzo, a volte fa qualche ora in più, anche nel week end, «se il figlio non è disponibile». Lo stipendio oscilla tra le 600 e le 800 euro, a seconda delle ore. «A volte», confessa, «egoisticamente penso che mia madre giù a Napoli è malata e avrebbe bisogno delle mie cure, invece io sono qui a curare i genitori degli altri». Ma lei questo lavoro l’ha scelto. «Dopo la morte di mio padre, ho sempre desiderato aiutare le persone», dice. Per questo ha preso una qualifica da assistente e si è data da fare. Prima in una casa di cura, dove ha lavorato per 13 anni. Poi, dopo il licenziamento, a domicilio.
Ma le esperienze lavorative per lei non sono state sempre positive. «La casa dove andavo prima era molto sporca», racconta, «c’erano topi, scarafaggi, venivo trattata male, accusata di cose che non facevo. Sono arrivata a un punto di non ritorno e sono andata via». E poi arriva la morte di tanti assistiti. «Ne ho visti morire tanti», dice, «a volte sei lì in quel momento e prendi il posto dei parenti».
Salvatore
Salvatore ha 24 anni, una voce sottile e modi educati da bravo ragazzo. Tre anni fa si è trasferito a Milano da Manfredonia (Foggia), ha studiato per un anno e ha preso la qualifica di “oss”. Dopo diverse esperienze nelle case di riposo, ora lavora anche lui a domicilio. Ma in nero.
«Le famiglie non sono più disposte a spendere come prima», racconta, «così la signora dalla quale andavo mi ha fatto capire che era disposta a tenermi, ma senza contratto». Il suo stipendio è di 100 euro a settimana. «A fine mese hai 400 euro puliti in tasca. Le famiglie così risparmiano e noi non mettiamo nessun contributo da parte». Ma «con i contratti regolari a chiamata gli ultimi tempi guadagnavo sì e no cento euro al mese. Come si fa a campare con 100 euro? Come si fa?». Nel frattempo, ha accettato anche un lavoro da educatore in una scuola per un bambino autistico. E a fine mese riesce ad arrivare a mille euro.
«Nelle strutture di cura sei più tutelato, più organizzato», dice, «non ci sono i parenti che ti stanno dietro, usiamo tutti la stessa metodologia. A domicilio, invece, spesso i figli non ti fanno lavorare come vorresti». Anche lui ha avuto le sue esperienze negative: «Mi dicevano di fare una passeggiata più breve e poi mi accusavano di non dedicare troppo tempo all’anziano. Altri mi facevano sentire a disagio, dicendo sempre: “Quanto ci costi!”. In un altro caso, invece, la domestica era gelosa e metteva bocca su tutto». Complicazioni lavorative da “badanti”. Come la morte dei pazienti. Anche Salvatore, nonostante la giovane età, ne ha visti già morire tanti. E con il decesso, finisce anche il lavoro. «È dura», dice, «soprattutto se hai il tempo di affezionarti. A volte basta solo uno sguardo».
Ma perché questa scelta? «Ho iniziato facendo l’animatorenegli oratori. Dopo che mia nonna si è ammalata di Alzheimer, un parente mi ha fatto notare la mia capacità di starle vicino e mi ha consigliato questo lavoro». Una vocazione, insomma. Tanto che ha già le idee molto chiare su quale sia il metodo giusto: «Non bisogna parlare tanto agli anziani», dice, «alcuni vogliono esser lasciati soli. Non è detto che bisogna stargli sempre dietro. All’inizio è difficile, bisogna capire le abitudini, capire la famiglia. A volte subentra la gelosia, la paura, non tutti si fidano dopo aver sentito al telegiornale della badante che ha accoltellato l’anziano. Ma dopo esser riusciti a guadagnarsi la fiducia, dalle loro storie si può ancora imparare tanto».