Bologna – Da una parte ci sono gli insegnanti della scuola pubblica, la Cgil e la Fiom, i grillini, tanti elettori del Pd, Sel e pezzi da novanta come il giurista Stefano Rodotà e il premio Nobel Dario Fo, alleanza trasversale raccolta nel Comitato Articolo 33. Dall’altra ci sono l’Arcidiocesi, l’apparato del partito Democratico – o almeno quel che ne resta, in un caos che ha azzerato ogni leadership – e il Comune. È una battaglia tutta politica e tutta nel centrosinistra quella che si gioca a Bologna con il referendum di iniziativa popolare sul finanziamento pubblico alle scuole materne private.
La città andrà al voto il 26 maggio, per decidere se continuare a dare soldi agli istituti privati. Vale a dire quel milione di euro, spicciolo in più o in meno, che ogni anno il Comune dirotta sulle paritarie. Un sostegno riconfermato senza tentennamenti, con una convenzione pluriennale, all’inizio del mandato, dal sindaco Virginio Merola, Pd. Uno che, da strenuo sostenitore del finanziamento, in linea con la segreteria provinciale del partito guidata da Raffaele Donini, ha perso anche l’aplomb. «Qualunque sia l’esito della consultazione non cambierà nulla», ha detto. Per poi ripiegare più mansuetamente sulle procedure: se a vincere saranno i referendari a decidere sulle paritarie sarà il Consiglio comunale, così come previsto dallo Statuto.
Tanta tensione si spiega. Il referendum è consultivo, l’esito non è vincolante. Ma se dalle urne uscirà un bel no al finanziamento il Comune non potrà non tenere conto della volontà popolare. Con l’aggravante che anche a Bologna, storica roccaforte della sinistra, la barca del Pd comincia a fare acqua, investita dallo tsunami della fine politica dei bersaniani e dalle rivolte della base, traumatizzata dalle spaccature e dal rischio di una scissione.
Per ora i referendari hanno incassato il successo politico di oltre 13mila firme raccolte in poco più di due mesi per ottenere la consultazione e oltre 8mila a sostegno della scuola pubblica. Con una parata di intellettuali e di vip schierati al loro fianco. Oltre a Rodotà e Fo, la Hack. Ma anche Salvatore Settis, Nadia Urbinati, Paolo Flores D’Arcais, Michele Serra, Andrea Camilleri. Poi attori come Riccardo Scamarcio, Valeria Golino, Valerio Mastandrea. E nessuno ha dimenticato la storica sconfitta del 1999, quando i bolognesi consegnarono la città a Giorgio Guazzaloca e al centrodestra, per punire l’autoreferenzialità del Pci-Pds-Ds che governava da mezzo secolo.
La posta in gioco è altissima. Se a poca distanza Reggio Emilia continua a brillare per gli asili nido, il capoluogo emiliano deve confrontarsi con il sogno infranto di un welfare modello. Sono oltre 400 bimbi in lista d’attesa per ottenere un posto nella scuola materna pubblica a logorare il primato di Bologna sui servizi all’infanzia. In pieno boom demografico la città non riesce più a sventolare la sua storica bandiera. La città oggi conta 128 materne, delle quali 70 comunali e 25 statali. Il 55% dell’offerta di posti fa capo ancora al Comune, ma oltre 1700 bimbi sono convogliati nelle scuole private, dove a differenza della scuola pubblica, si paga una retta.
La formula magica, per un Pd oggi stremato anche nella sua culla, si chiama «sistema integrato», per aggirare l’ostacolo dei tagli ai trasferimenti statali con la sussidiarietà. Dall’altra parte del campo, nell’alleanza trasversale per la difesa della Costituzione, rimbombano parole come laicità ma anche numeri. I referendari, infatti, spulciando le delibere comunali, hanno fatto un po’ di conti: con quel milione dirottato ogni anno sulle private si potrebbero creare altri 280 posti. Già qualche mese fa il segretario del Pd Donini aveva detto ai circoli di indicare la conferma dei finanziamenti. Ma adesso, su quel mandato, pesa l’incognita dei militanti in rivolta per le vicende nazionali. I referendari di Articolo 33, a loro volta, denunciano il boicottaggio tecnico della consultazione. Il Comune ha infatti concesso solo 200 seggi. Un numero più che congruo, secondo il sindaco e l’assessore all’Istruzione Marilena Pillati. Troppo pochi, invece, dicono i referendari, per garantire la piena partecipazione in una città di quasi 380mila abitanti.