C’era l’amore nel kibbutz, la vita di Masal Pas Bagdadi

Intervista con la scrittrice e psicoterapeuta

Un lungo viaggio dalla Siria all’Italia passando per Israele. Il vagabondaggio dell’anima per riscoprire la proprie radici ebraiche, siriane, israeliane attraverso le persecuzioni, la fuga, l’esperienza del kibbutz e infine la psicanalisi, il cui prezioso lavoro di rivisitazione della memoria permette la catarsi e la liberazione. Masal Pas Bagdadi ritorna sulla sua tormentata ma intensa esistenza e lo fa grazie al lavoro prezioso della scrittura, una scrittura condita di elementi mitologici, di traumi psicologici, di accenti intimistici. Così il suo racconto si fonde nel grande affresco della diaspora ebraica, del popolo eternamente in cammino alla ricerca della terra.

Masal Pas Bagdadi ha recentemente pubblicato Mamma Miriam (edito da Bompiani) che prosegue idealmente A piedi scalzi nel kibbutz. Ma chi è Masal? Masal Pas Bagdadi nasce nel ghetto ebraico di Damasco, in Siria, nel 1938. Vive un’infanzia felice, circondata dall’affetto della sua famiglia e in particolar modo della madre. Nel mondo ovattato del ghetto ebraico di Damasco il tempo sembra trascorrere lento ma su di esso incombe una minaccia costante. La minaccia della violenza, del rifiuto, dell’espulsione.

«Non potevo accedere all’universo arabo – dice Masal a Linkiesta – avevo paura: ma ero terribilmente curiosa. Il ghetto era fatto di povertà, un ambiente chiuso, ma anche di una religiosità forte, che univa profondamente tutti membri della nostra comunità. Sono questi legami forti che ci hanno permesso di sopravvivere e che hanno caratterizzato la nostra esistenza». Tra i ricordi che ancora popolano la mente di Masal le celebrazioni per lo shabbat. «Mia madre guardava il cielo e scrutava le stelle. Poi indossava il mendil, una specie di foulard, chiudeva gli occhi e accendeva le candele. Da quel momento in poi cambiava tutto. Il quotidiano si fermava, tutte le cose sembravano fermarsi e s’entrava in un altro universo, fatto di spiritualità e riposo».

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Ma agli inizi degli anni Quaranta le istanze del nazionalismo arabo prendono il sopravvento e si concretizzano nei pogrom, nei linciaggi e nelle persecuzioni a danno della comunità ebraica siriana. Anche il ghetto ebraico di Damasco non viene risparmiato. Nel 1944, le persecuzioni si fanno più minacciose e violente e Masal viene portata clandestinamente in Palestina.

Qui avviene una prima separazione traumatica dalla sua famiglia, in special modo da sua madre. «Mi hanno separato da mia madre, da mia sorella – dice Masal – ricordo quando vidi mia sorella salire su un bus e lei piangeva. Piangevo anch’io, ero convinta di viaggiare con lei. Invece ci avevano separate. Fu un momento molto traumatico della mia esistenza».

Masal viene accolta nel kibbutz di Alonim, in Israele. Qui cresce e sperimenta su se stessa sistemi educativi che poi rielaborerà più tardi, in Italia, nella sua professione di psicoterapeuta. Il kibbutz infatti non è solo la vita in comunità. In esso s’insegna a sentirsi parte di un tutto. Si pone l’accento sul fatto che nessuno è isolato, ognuno è indispensabile per la salvaguardia, la vita e la prosperità della comunità.

«Ricordo che all’epoca in cui vivevo nel kibbutz mi regalarono una bambola che aveva la testa rotta. Io l’ho riparata, poi mi sono detta: le cose si possono aggiustare, anche le cose della testa, ovvero i pensieri. Quest’atto della mia infanzia mi ha permesso di guarire anche le ferite psichiche dovute alla separazione da mia madre e dalla mia famiglia».

L’esperienza traumatica della fuga e della separazione dalla madre spingono Masal più tardi ad occuparsi in Italia dei disagi psicologici dell’infanzia attraverso la creazione del “Centro giochi di Masal”, asilo nido d’impostazione psicoanalitica che nel tempo è diventato un centro di studi per chi si occupa in generale dell’infanzia e dell’adolescenza. «Se dal punto di vista spirituale e culturale mi sono formata in Israele – dice Masal – è in Italia che ho potuto rielaborare la mia esperienza di vita e tradurla professionalmente nella psicoterapia. Ho portato questi principi nel mio lavoro, negli asili. L’idea del kibbutz è infatti quella che ciascuno deve essere messo nelle condizioni di dare il meglio di sé, sentendo il supporto degli altri. L’individuo non esiste senza il sostrato della comunità in cui vive. Così è anche nella terapia».

In definitiva dunque Mamma Miriam non è la biografia della madre della scrittrice ma un libro sulla maternità, sulla pedagogia e sull’insegnamento ma anche sulla tradizione. È un diario di viaggi e di incontri i cui personaggi vengono tratteggiati con pennellate veloci. Nei dialoghi e negli incontri l’autrice calibra le risposte in relazione alle persone che incontra, il suo ruolo di psicoterapeuta l’aiuta a capire ogni suo interlocutore.

«Non mi tiro indietro: il terapeuta non deve essere completamente staccato, come si dice, ma deve saper condividere, questo è il primo passo verso la guarigione». Il vissuto però si snoda seguendo il filo conduttore della madre, amatissima e mitizzata, il cui ricordo ha lasciato un segno profondo nella scrittrice. «Io sono cresciuta a Damasco da una famiglia antichissima – dice Masal. Mia madre mi ha trasmesso tantissimi elementi identitari. Ecco perché parlo di mia madre. Lo faccio anche nella terapia. L’immagine di mia madre diventa lo specchio di tutte le madri, di una figura d’accoglienza fondamentale per la formazione di ogni individuo.

Nel Talmud si dice che non esiste solo la realtà ma anche ciò che si aggiunge alla realtà, ovvero l’immaginazione e i ricordi. Posso dire che i miei ricordi e la mia immaginazione su mia madre fanno parte della realtà di ciò che è mia madre. L’altro elemento, oltre la madre, è quello della terra, topos onnipresente nella sensibilità ebraica.

«La terra per noi è importante. Quando ero piccola sono stata privata della mia terra, siamo stati costretti a fuggire e ad abbandonare i luoghi della mia infanzia a Damasco. In Israele però ho ritrovato la mia identità, anzi l’ho costruita giorno per giorno». Ma Israele è anche il conflitto di due popoli, quello israeliano e palestinese. «Una ferita lacerante – chiosa Masal – per due popoli dovrebbero esistere anche due Stati ma la violenza ha preso il sopravvento in quanto si fa di tutto per non riconoscere l’altro». Un altro percepito sempre più minaccioso e distante e con il quale non si riesce in nessun modo a dialogare. 

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