Il parlamento italiano è stato impegnato in questi giorni nell’esame del Documento di economia e finanza (Def) varato dal governo Monti il 10 aprile scorso. Un tempo, questo fondamentale atto dello Stato si chiamava Documento di programmazione economica e finanziaria (Dpef), diventato poi Decisione di finanza pubblica (Dfp), fino ad assumere nel 2011 l’attuale denominazione.
Solo una banale e formale modificazione lessicale? No, il cambio di denominazione sottende anche un mutamento di sostanza, che coincide con le trasformazioni del quadro normativo europeo in tema di stabilità dei bilanci pubblici.
Prima dell’inasprimento della strategia del rigore nei conti pubblici, sublimata dall’inserimento nella Costituzione dell’obiettivo del pareggio di bilancio, una parte significativa di questi documenti era riservata all’esplicitazione delle linee di intervento del governo per favorire lo sviluppo e l’occupazione, per migliorare i servizi pubblici e ammodernare il paese.
Per loro natura erano strumenti di “programmazione” economica a tutti gli effetti, attraverso i quali si definivano le prospettive di sviluppo dell’economia reale e la riqualificazione dei servizi del welfare per il triennio successivo.
Beninteso: l’indicazione delle strategie di politica economica e degli interventi di riforma da perseguire nel periodo di riferimento non era avulsa da una valutazione del quadro tendenziale dei conti dello Stato e dalla previsione dei necessari interventi correttivi in tema di finanza pubblica, ma quest’ultimi non costituivano il “fine ultimo” della programmazione, come invece accade adesso.
Il Def attualmente si compone di tre sezioni: Programma di Stabilità, Analisi e tendenze della finanza pubblica e Programma nazionale di riforma (Pnr). Tutti e tre i documenti hanno una sola stella polare: il conseguimento ed il mantenimento del pareggio strutturale di bilancio, per come stabilito dal Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’Unione economica e monetaria (Fiscal compact) e dall’art. 81 della Costituzione.
Leggendo il Def 2013 ora all’esame delle Camere è stato stupefacente constatare come in mezzo a centinaia di pagine parole come lavoro, scuola, mobilità, salute e ambiente, cultura e beni culturali, mezzogiorno, perfino espressioni come «lotta alla povertà», siano citate esclusivamente in relazione alle riforme già fatte dal governo Monti tra il 2011 e il 2012, nel quadro dei doveri verso l’Europa in tema di risanamento dei conti pubblici.
D’altronde è la struttura stessa del Def ad imporre tutto ciò, dato che la sua prima sezione (Programma di Stabilità) si occupa della solidità del bilancio statale e della sostenibilità del debito, la seconda (Analisi e tendenze della finanza pubblica) dei conti della pubblica amministrazione, mentre la terza (Programma nazionale di riforma) elenca e spiega le riforme fatte nell’anno precedente per stare nei termini fissati dalla Ue e dall’Eurozona.
E la politica economica? Scomparsa. Detto in soldoni, l’attuale modello di costruzione europea, che ha fatto del rigore finanziario la sua filosofia dominante, non consente più agli stati membri di decidere la propria politica economica in funzione dei bisogni sociali e delle priorità del proprio mondo produttivo, ma di concepirla soltanto in regime di compatibilità con gli obiettivi di risanamento e stabilità finanziaria imposti dai recenti trattati dell’Unione.
Prima i bilanci e la stabilità monetaria, poi l’economia, la società e le persone in carne ed ossa. Ce lo chiede l’Europa.