Così i cinesi si stanno trasformando in consumatori

Negli ultimi 10 i salari degli operai, perlopiù stranieri, sono aumentati del 20% all’anno

PECHINO – La Cina vuole diventare consumista, ma come può farlo? Spostando milioni di persone dalla tradizionale condizione di operai (o contadini)-risparmiatori a quella ben più soddisfacente e stabilizzante dal punto di vista politico di ceto medio consumista. Da formiche a cicale, ma con giudizio. È questo lo scopo della grande transizione in corso. Ma quali sono le categorie da tenere d’occhio, quelle su cui punteremmo qualche soldo se gli allibratori di Londra accettassero scommesse del genere?

Un recente studio del Financial Times ci consiglierebbe di giocare più di un penny sulla «popolazione fluttuante», cioè i migranti.
220 milioni per 517 miliardi: questo è già oggi “l’indotto del mingong” (migrante, appunto), i numeri su cui fa affidamento la leadership cinese per trasformare l’economia da export a consumer oriented. Nel 2012, i 220 milioni che lavorano nelle manifatture, nei cantieri e negli esercizi commerciali sparsi per la Cina hanno infatti consumato per 4200 miliardi di Rmb (517 miliardi di euro). Per intenderci, è più di quanto abbiano speso in totale i consumatori turchi o quelli indonesiani.
Secondo la ricerca, i migranti più giovani sarebbero inoltre più propensi al consumo rispetto a quelli delle generazioni precedenti. I jiulinghou (nati negli anni Novanta) spendono infatti il 53 per cento del proprio reddito, rispetto al 47 e al 38 di chi è nato rispettivamente negli anni Ottanta e Settanta. Nella maggiore propensione al consumo, i migranti di ultima generazione assomigliano terribilmente ai loro coetanei benestanti, i “principini” figli unici che hanno alle spalle famiglie che si sono arricchite sempre più con il passare delle generazioni. Ce ne è quindi abbastanza per prevedere che nel tempo la voglia di spendere e spandere aumenterà sempre più a tutti i livelli della scala sociale.

Il fenomeno è innescato dal fatto che nell’ultimo decennio i salari degli operai cinesi, generalmente mingong, sono aumentati in media del 20 per cento annuo. E nel primo trimestre del 2013, il loro reddito medio mensile è cresciuto già del 12,1 per cento rispetto al 2012. La ragione è semplice anche se può stupire chi è rimasto con la mente alla Cina delle “formiche operaie”: carenza di manodopera.
Oltre alla trentennale politica del figlio unico, che sta riducendo sempre l’ex esercito industriale di riserva pronto per essere sfruttato, c’è il fatto che, dati alla mano, il settore dei servizi ha creato 37 milioni di nuovi posti di lavoro negli ultimi cinque anni, contro i 29 milioni nel settore industriale (manifatture, costruzioni, miniere). Non solo: il terziario può offrire retribuzioni superiori anche del 40 per cento rispetto alle attività tradizionali.Ne consegue che i migranti di ultima generazione, a differenza dei loro padri, hanno una certa possibilità di scelta. Desiderosi anche di consumi che diano status, immagine, si riversano sempre più nelle città a caccia di lavoro nel commercio o nei servizi, disdegnando i campi e le officine.

Shaun Rein, autore di The End of Cheap China, sostiene che sebbene i consumi dei giovani migranti siano ancora destinati a beni di prima necessità, cresce però la conoscenza dei grandi marchi, che vanno da Kentucky Fried Chicken a Samsung, passando per i cinesissimi Li-Ning (abbigliamento sportivo) e Tsingtao (birra).
Anzi, con l’avvento di questa nuova classe e generazione di consumatori, i marchi locali sembrano farsi sempre più strada, a gomitate, rispetto a quelli stranieri. Secondo un articolo di China Daily, un recentissimo studio sulla fedeltà dei consumatori rivelerebbe uno spostamento dei gusti: sei cinesi su dieci preferiscono ancora i brand stranieri, tuttavia l’apprezzamento del made in China è passato dal 31 per cento del 2011 al 43. Certo, qui non si sa dove finisca l’informazione e dove cominci invece la propaganda, ma è un fatto comprovato che dei primi cinque marchi di smartphone venduti in Cina, quattro siano locali. Solo la coreana Samsung tiene botta.

Questo ex esercito industriale di riserva che si sta trasformando in moltitudine di spendaccioni ha già ottenuto un risultato: oggi, il 55 per cento del Pil cinese è prodotto dai consumi, mentre fino a qualche anno fa guidavano gli investimenti. A vedere da questi numeri, la trasformazione dell’economia cinese da export-oriented a consumer oriented è qualcosa di più di un sogno. A Zhongnanhai – il quartier generale della leadership – hanno ben modo di gongolare, soprattutto se l’urbanizzazione di cui parla un giorno sì e l’altro pure il premier Li Keqiang farà da volano per un ulteriore incremento dei consumi.
Attualmente la popolazione urbana ha raggiunto il 52,7 per cento del totale, una percentuale ancora molto inferiore rispetto a quella delle economie evolute: siamo all’82 per cento negli Stati Uniti e al 91,3 in Giappone. La Cina prevede di raggiungere un tasso del 67 per cento entro il 2030, il che significa che nel giro di due decenni, altre 280 milioni di persone si sposteranno in città.

Perché questo avvenga, è però necessario rimuovere o comunque riformare il sistema dell’hukou, la residenza obbligatoria che lega i diritti dei migranti al loro luogo natale, rendendoli cittadini di serie B quando si trasferiscono in città: senza diritti e servizi essenziali.
Secondo la ricerca citata dal Financial Times, se questo accadesse, ben 131 degli attuali 220 milioni di migranti sceglierebbero la residenza permanente in città (l’equivalente dell’intera popolazione del Giappone). Di una riforma dell’hukou si parla da anni, ma nulla è stato fatto finora. Tuttavia, di recente, il tema compare sempre di più anche sui media di Stato, il che non è tanto un segnale quanto una vera e propria promessa.

L’avvento di nuovi consumatori sulla scena determina una reazione a catena, trasformando gusti e stili di vita. In questo senso, i cinesi già benestanti sono la seconda categoria da tenere d’occhio, perché per reazione verso i “parvenu” la loro domanda si sta facendo sempre più articolata e complessa. I cinesi sono ormai i secondi più grandi consumatori di lusso nel mondo, con circa 20 miliardi di dollari di prodotti d’alta gamma ogni anno.

Shaun Rein sostiene che per quanto riguarda questo tipo di merci, negli ultimi tre anni c’è stata un’evoluzione dei gusti: per fare un esempio, chi vuole distinguersi non compra più Louis Vuitton, giudicato troppo comune, e si sposta gradualmente verso marchi come Bottega Veneta e Hermes. Insomma, i desideri si fanno complessi, il cinese che si precipita in Svizzera per comprare cento Rolex tutti uguali da esibire al ritorno lascia gradualmente il posto al cultore dei concerti salisburghesi. Si spende sempre tanto e lo si fa per ostentare, ma è la natura dell’ostentazione che sta cambiando.

Anche il recente giro di vite sulla corruzione ha contribuito a trasformare il consumo dei ricchi, più che a reprimerlo. Si abbandonano marchi come Ferrari, troppo di alto profilo e troppo collegati a scandali (come quello del “principino” Ling Gu, figlio dell’alto funzionario Ling Jihua, che un anno fa si ammazzò schiantandosi contro un ponte di Pechino con tanto di donnine seminude a bordo), mentre gli ultra-ricchi raffinano la propria ricerca e tendono alle “esperienze di vita,” come i safari in Africa o anche le donazioni che portano contatti internazionali, non si sa mai: ad esempio quelle ai grandi istituti scolastici d’eccellenza. Rein cita il fenomeno dei fucili James Purdey, quelli della Famiglia Reale britannica, divenuti oggetti di culto tra ricchi che magari non hanno nessuna intenzione di andare a caccia. È il “sogno cinese”, che ognuno traduce a modo suo. Se può.

Infine ci sono le donne, un vero e proprio consumatore trasversale a tutti i ceti, già “altra metà del cielo” per Mao Zedong e ora “altra metà dello shopping”. Nel 1950 rappresentavano solo il 20 per cento dei redditi familiari; nel 1990 erano salite al 30 e oggi hanno finalmente raggiunto il 50 per cento (oltre a conseguire più diplomi universitari degli uomini sebbene siano in minoranza). Sono le principali driver di crescita per le vendite al dettaglio in una Cina dove – e anche questo è un grande segno di cambiamento – metà dei miliardari sono di sesso femminile.
 

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