Pizza ConnectionDa Ambrosoli a Riina, il lato oscuro del divo Giulio

«Il senatore Andreotti risponde dinanzi alla Storia», scrivevano i giudici

Giulio Andreotti protagonista di oltre mezzo secolo di politica italiana, è morto alle 12.25 di lunedì sei maggio. Il mandato bis di Giorgio Napolitano a presidente della Repubblica è stata l’unica elezione del Capo di Stato in cui il “divo” Giulio non ha votato da quando la Repubblica ha visto la luce.

Un personaggio, il ras della Democrazia Cristiana su cui si sono addensate le nubi dei rapporti con la mafia: «ha avuto piena consapevolezza – scrivono i giudici della Corte d’Assise di Palermo – che suoi sodali siciliani (Lima, i Salvo, ras dell’ente riscossione delle tasse in Sicilia, e poi anche Ciancimino) intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha, quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi».

La stessa Corte lo aveva assolto per non aver commesso il reato di associazione mafiosa a partire dal 1982, ma hanno invece dichiarato prescritto il reato di associazione per delinquere semplice, in quanto prima di quella data il reato di associazione mafiosa non esisteva nel codice penale. La Cassazione, al termine di una vicenda giudiziaria durata dieci anni, confermò il verdetto.

Sono nomi e cognomi della storia della politica siciliana e nazionale, e dei boss di Cosa Nostra a rincorrersi nelle indagini a carico di Andreotti. Dai rapporti del luogotenente democristiano e poi europarlamentare Salvo Lima col capomafia Stefano Bontate, agli incontri che lo stesso “Belzebù” (così venne soprannominato il senatore a vita), stando alle dichiarazioni del pentito Francesco Marino Mannoia avrebbe avuto direttamente con il boss. Incontri durante il quale , scrivono i giudici nella sentenza «ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, ad ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui ed a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati; ha omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del Presidente Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza».

Andreotti intanto per sette volte è presidente del Consiglio, otto volte Ministro della Difesa, cinque volte Ministro degli Esteri, tre volte Ministro per le Partecipazioni Statali, due volte ministro delle Finanze, ministro del Bilancio e ministro dell’Industria, una volta ministro del Tesoro, ministro dell’Interno, ministro dei beni culturali e ministro delle Politiche Comunitarie.

Una collezione di cariche e poltrone che attraversano la storia e le ombre sulla storia politica del “divo” Giulio, «il prescritto», lo chiamano i suoi detrattori dopo la sentenza della Cassazione che lo ritiene in stretto contatto con le cosche almeno fino all’inizio degli anni ’80.

La storia di Andreotti si intreccia poi con quella di Michele Sindona, il bancarottiere siciliano condannato come mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli e ritenuto uno dei maggiori riciclatori per conto di Cosa Nostra. I giudici di ultima istanza scriveranno riguardo quel legame: «non è sufficientemente provato che il senatore Andreotti, al momento in cui aveva realizzato i comportamenti suscettibili di agevolare il Sindona, fosse consapevole della natura dei legami che univano il finanziere siciliano ad alcuni autorevoli esponenti dell’associazione mafiosa e, quindi, che non era configurabile la partecipazione dell’imputato al reato associativo, pur rimanendo il fatto che egli, anche nei periodi in cui rivestiva le cariche di Ministro e di Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, si era adoperato in favore di Sindona». Si affacciò anche l’ipotesi, poi mai suffragata da prove solide al vaglio dei tribunali, che dietro alla bustina di zucchero avvelenata di Michele Sindona ci fosse proprio il divo Giulio. Questo per timore che lo stesso Sindona potesse rivelare segreti riguardanti i rapporti di politici italiani con Cosa Nostra e la P2.

E poi la più famosa che provata scena del bacio tra Giulio Andreotti e il cosiddetto ‘capo dei capi’ Totò Riina. A raccontarla fu il collaboratore Baldassarre di Maggio, e le dichiarazioni finirono tra le carte dell’accusa sostenuta dall’allora procuratore di Palermo Giancarlo Caselli. Deposizioni quelle di Di Maggio nell’ambito del processo «caratterizzate – scriverà poi la magistratura giudicante – da una tale reiterata contraddittorietà (perfino l’anno in cui l’episodio si sarebbe verificato era stato oggetto di innumerevoli contestazioni, richieste di chiarimenti e rettifiche), da renderle in più punti del tutto inaffidabili».

La vicenda giudiziaria così veniva poi commentata dallo stesso Caselli: «sentenza finale che afferma, va ribadito, che fino al 1980 l’imputato aveva tenuto una serie di comportamenti tali da configurare il reato di associazione a delinquere: scambi di favori; incontri con esponenti mafiosi (Stefano Bontate e altri) prima e dopo l’omicidio di Piersanti Mattarella, allora presidente della regione Sicilia, un uomo politico onesto che con la mafia non voleva avere niente a che fare… Bacio o non bacio, c’era comunque un problema. E noi della procura, con le nostre indagini, lo avevamo individuato. Ma tutto questo è stato cancellato, stravolto…. ».

Andreotti finì anche nel processo per l’omicidio del giornalista della rivista “OP” Mino Pecorelli, in seguito alle dichiarazioni di alcuni presunti pentiti della banda della Magliana, e di Tommaso Buscetta, che mette in correlazione col ‘caso Moro’ sia l’omicidio Pecorelli sia quello del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il caso finisce a Perugia: la Corte d’Assise d’Appello condanna a 24 anni di reclusione Giulio Andreotti e Gaetano Badalamenti, considerati i principali registi del delitto Pecorelli. Poco più di un anno dopo La Corte di Cassazione annulla senza rinvio la sentenza d’appello e assolve tutti gli imputati per non aver commesso il fatto.

Dalla Chiesa, tra le altre cose, scriveva che la corrente Dc che fa capo ad Andreotti in Sicilia sarebbe, di fatto, la frangia politica più inquinata da presenze mafiose. In quegli stessi diari, il prefetto di Palermo, mandato allo sbaraglio a combattere la mafia e poi ucciso nel 1982: “sono stato molto chiaro con lui (Andreotti, ndr) e gli ho dato la certezza che non avrò riguardi per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori. Sono convinto che la mancata conoscenza del fenomeno lo ha condotto e lo conduce ad errori di valutazione”. Fu proprio Andreotti, in quel momento fuori da cariche istituzionali, a prodigarsi per l’arrivo di Dalla Chiesa in Sicilia.

In ultimo il nome di Andreotti ricorre anche nell’inchiesta sulla cosiddetta “trattativa” tra Stato e mafia: l’omicidio dell’europarlamentare Salvo Lima, sarebbe infatti maturata, secondo i pm di Palermo, in un ottica di avvertimento al blocco della politica che non era stata in grado di intervenire sulla Cassazione per ‘aggiustare’ il maxi-processo a Cosa Nostra.

Rappresentato come l’uomo dei segreti, e forse felice di esserlo, non ha mai fatto nulla per toglieri questa etichetta, dagli elogi a Michele Sindona a quel «in termini romaneschi, Ambrosoli le andava cercando». Ha dichiarato, a proposito di segreti, Licio Gelli apprendendo della morte di Andreotti «ha usato i segreti per dare il benessere al popolo. I segreti li aveva, e se li e’ portati con sè». La pensava diversamente Indro Montanelli «sempre più si diffonde sulla nostra stampa il brutto vezzo di chiamare Andreotti col nome di Belzebù. Piantiamola. Belzebù potrebbe anche darci querela».

«Il senatore Andreotti risponde dinanzi alla Storia», scrivevano i giudici della Corte nell’epilogo del processo per mafia a Giulio Andreotti. Una storia che ancora oggi sembra ancora tutta da scrivere.

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