È arrivata il 23 maggio la sentenza del Tar: «Niente lezioni esclusivamente in inglese al Politecnico di Milano». La scelta, ha dichiarato il Tribunale amministrativo «incide in modo esorbitante sulla libertà di insegnamento e sul diritto allo studio». E mina il primato costituzionale della lingua italiana.
Poco più di un anno fa, nel maggio 2012, il senato accademico del Politecnico aveva deliberato il passaggio, nel giro di due anni all’uso esclusivo dell’inglese nei corsi di specialistiche e dottorati. Dietro la scelta, il rettore Giovanni Azzone: «Dobbiamo formare capitale umano di qualità in un contesto internazionale per rispondere alle esigenze delle imprese e a quelle degli studenti che chiedono di essere pronti per un mercato mondiale del lavoro».
A luglio, il ricorso al Tar di circa 150 professori delle facoltà di Architettura e Ingegneria del Politecnico, che si appellavano non solo alle motivazioni giuridiche poi accolte dal tribunale amministrativo, ma anche a ragioni pedagogiche e culturali: non tutti i docenti sarebbero pronti al passaggio, si abbasserebbe notevolmente la qualità dell’insegnamento e infine, ci sarebbe la necessità di salvaguardare la diffusione della cultura italiana attraverso la lingua.
Gian Luigi Beccaria, docente di Storia della lingua italiana all’Università di Torino, membro dell’Accademia della Crusca e autore di Mia Lingua Italiana (Einaudi).
Professore è d’accordo con la sentenza del Tar?
Sono felice della bocciatura del Tar, sembrava anche a me che la scelta del Politecnico fosse una decisione anticostituzionale. Non sono contro l’inglese in sé, anzi credo che vada insegnato alla perfezione agli studenti, perché ci serve una lingua itineraria, commerciale, ora come in passato. Ma non condivido la scelta dell’esclusività. Significa rinunciare alla conoscenza della terminologia tecnica italiana. I nostri studenti non devono essere capaci di parlare solo nei convegni internazionali. Devono potersi rivolgere anche a una comunità più ampia di quella accademica, composta anche da italiani che non conoscono l’inglese.
Ne è convinto nonostante si tratti di una scelta riservata ai corsi specialistici e ai dottorati?
Sì, perché il passaggio della decisione anche ai corsi triennali sarebbe stato velocissimo. Così come l’estensione dell’insegnamento in lingua inglese anche ai corsi umanistici, alle Scienze giuridiche, ad esempio.
Crede che sia una discriminazione per gli studenti?
Certo. L’ottima conoscenza dell’inglese deve essere richiesta ma non esclusiva. Altrimenti significa negare ad alcuni l’accesso ai corsi.
Condivide le obiezioni di chi crede che non tutti docenti del Politecnico siano pronti a questo passaggio?
Certo: sono pochi i docenti che possiedono una conoscenza dell’inglese abbastanza ricca e articolata per riuscire non solo a far passare dei concetti, ma anche a conquistare l’interesse degli allievi. Insegnare è anche questo.
Vi intravede un pericolo per la lingua italiana?
La nostra lingua gode già di un pessimo stato di salute. Decisioni come queste peggiorano ulteriormente le cose. Ma l’italiano è ancora una lingua viva, non possiamo amputarla. Il giorno in cui nessuno penserà più in italiano potremmo dire che è morta.