Roberto Perotti insegna Economia politica all’Università Bocconi di Milano. È uno che il mondo dell’università lo conosce bene e nel 2008 ha scritto un libro, L’Università truccata (Einaudi), elencando i motivi del malessere dei nostri atenei: nepotismo, scarsa selezione dei docenti, mancanza di incentivi alla produzione scientifica. Sulle parole pronunciate da Umberto Eco, che nel corso della sua lectio magistralis a Burgos aveva individuato nell’«eccesso di studenti» la causa della «crisi dell’università», dice: «Il problema non è che ci sono troppi studenti. Il problema è non voler riconoscere che le università non possono essere tutti uguali. Le università migliori devono essere libere di scegliere gli studenti migliori».
Professore, si dice sempre che l’università italiana sia sottofinanziata rispetto agli atenei stranieri. Questa affermazione è vera o bisognerebbe semplicemente riorganizzare la destinazione dei soldi a disposizione per una maggiore efficienza?
I calcoli che ho fatto nel 2008 suggeriscono che l’università italiana non è sottofinanziata rispetto alla media degli altri Paesi avanzati. Per esempio, gli stipendi medi non sono più bassi che negli altri Paesi, e neanche la spesa per studente equivalente a tempo pieno (cioè tenendo conto di coloro che non frequentano). So che molti contestano questi miei calcoli, ma nessuno ha mai dimostrato il contrario dati alla mano. Molti hanno addirittura supposto che io abbia intenzionalmente falsificato i dati, ma i dati sono disponibili a tutti, e confermano i miei calcoli. Ma è vero che in Italia vengono pagati meno i giovani, e che c’è un’accelerazione molto forte basata solo sull’età, e non sulla produzione scientifica. È la peggiore combinazione possibile.
Ma in Italia ci sono troppe università e/o troppi corsi di laurea come spesso si dice?
Forse sì, ma il problema vero è che in Italia c’è la pretesa che tutte le università debbano essere uguali. È la ricetta migliore per la mediocrità generale.
Si può misurare il livello qualitativo dell’università italiana in confronto all’estero?
Entro certi limiti sì. C’è molta confusione sul ruolo degli indicatori bibliometrici. Molti confondono l’uso degli indicatori bibliometrici per comparare singoli individui – che è molto pericoloso – con l’uso di questi indicatori per comparare università, dipartimenti, o interi sistemi universitari. In questo caso gli indicatori bibliometrici, per quanto imperfetti, sono utili. Che alternative ci sono, in ogni caso? Le classifiche internazionali dicono che siamo indietro, ma vanno prese con le pinze perché non sempre controllano le dimensioni e le differenze nelle discipline rappresentate. Non si possono confrontare le pubblicazioni in medicina con quelle in letteratura italiana. Il confronto è più facile all’interno di ogni disciplina, soprattutto quelle scientifiche le cui pubblicazioni sono soprattutto in inglese. E qui non siamo all’avanguardia, con le solite eccezioni.
Qualche giorno fa Umberto Eco ha ricevuto una laurea honoris causa in Spagna, a Burgos. Nel discorso che ha tenuto ha detto che «l’eccesso di studenti ostacola l’attività accademica e provoca la crisi dell’università» e ha auspicato che «l’accademia torni a essere per una certa élite, proprio come accadeva nella sua epoca migliore». Condivide queste affermazioni? Pensa che ci sia un eccesso di studenti che ha portato a un peggioramento dell’università?
Umberto Eco cade nello stesso errore di tante altre persone. Il problema non è che ci sono troppi studenti. Il problema è non voler riconoscere che le università non possono essere tutte uguali. Le università migliori devono essere libere di scegliere gli studenti migliori. Gli studenti meno bravi hanno diritto di studiare, ma non tutti possono andare ad Harvard o Princeton. Negli Usa ci sono migliaia di università, ma per ogni Harvard ci sono centinaia di università che sono peggio di un nostro liceo. È inevitabile, ed è un bene, che sia così. I bravi ricercatori e i bravi professori sono relativamente pochi, e lo stesso vale per gli studenti. È insensato cercare di imporre un sistema in cui un bravo ricercatore sia costretto a insegnare a studenti mediocri, e viceversa. E una società non ha bisogno di milioni di geni e di persone che si dedichino alla ricerca: ne bastano pochi, per il resto servono dottori, ingegneri, architetti, commercialisti, insegnanti di italiano che sappiano fare onestamente il proprio mestiere.
Eco ha aggiunto anche che le tecnologie, e in particolare Internet, avrebbero alterato il rapporto studenti-docenti proprio perché in Rete si trovano delle informazioni che in un certo senso sostituiscono il lavoro dei docenti. Com’è cambiata l’università con la Rete e qual è il livello di penetrazione della Rete nelle università italiane?
A mio avviso è presto per un giudizio definitivo. Se per penetrazione della Rete si intende “università a distanza”, è fortunatamente basso. Se invece si intende “uso della Rete come strumento di ricerca”, è ovviamente altissimo.
Nei giorni scorsi si è parlato molto anche della sentenza del Tar che ha detto no ai corsi esclusivamente in inglese per specialistiche e dottorati del Politecnico di Milano. Cosa pensa di questo? Si dice spesso che i nostri ragazzi non sappiano parlare bene l’inglese rispetto ai coetanei europei, ma nello stesso tempo si difende il primato dell’italiano. C’è una soluzione nel mezzo?
La sentenza del Tar si commenta da sola. Si offre agli studenti uno strumento (e non studenti di letteratura italiana medievale, ma di ingegneria) per aprirsi al mondo, e un giudice del Tar dice che si lede un diritto costituzionale. Questa sentenza è l’esempio migliore di come l’università italiana sia finita in un baratro da cui difficilmente si risolleverà.