Il decennio nero della pesca, un mestiere al tramonto

Slow fish, da oggi a domenica nel porto vecchio della martoriata Genova

Buona pesca ci sarà. Sì, ma chi getta le reti se nessuno più vuole fare il pescatore? La domanda se la pongono anche a Slow Fish, la manifestazione dedicata al mondo ittico e agli ecosistemi acquatici in programma al Porto Antico di Genova da giovedì 9 a domenica 12 maggio. L’attenzione per il pesce di qualità, per la tutela delle specie a rischio e per l’ecosostenibilità cresce, ma allo stesso tempo il mestiere di pescatore in Italia perde attrattività.

L’idea di vivere all’aria aperta, a contatto con il mare, non ha più quel fascino romantico di un tempo. In questo periodo, in Italia saltano all’occhio sopprattutto gli aspetti negativi: i guadagni spesso bassi, l’immagine sociale non sempre brillante dell’uomo di mare e tutti i paletti posti al settore della pesca da parte dell’Ue che, a giudizio degli addetti ai lavori, sono giusti concettualmente ma nei fatti limitano troppo quest’attività.

Così, l’occupazione crolla. «In dieci anni, fino al 2011, in Italia abbiamo registrato un calo del 38%», ammette il presidente di Lega Pesca, Ettore Ianì, citando i dati del centro studi dell’associazione delle cooperative che operano nell’economia ittica. «I dati Ue invece certificano che in Europa dal 1996 allo scorso anno c’è stata una flessione annua degli addetti del 4,5%. Come se non bastasse, Bruxelles con la riforma della politica comune della pesca impone una riduzione del 30% delle flotte entro il 2020, con conseguente diminuzione degli equipaggi».

Il calo degli addetti, 17mila posti di lavoro diretti in dieci anni, in parte si spiega con la crisi di tutto il settore. Lega Pesca attesta che dal 2001 al 2011 il segno meno è stato frequente in molte delle statistiche relative al mondo ittico, tra cui il -40% di catture e il -31% di redditività. A far registrare un netto incremento sono stati invece i costi di produzione, saliti del 240%.

Dall’altra parte però è il mestiere stesso che non riesce a fare presa sui giovani, che di pesci e di pesca non sanno più nulla, o quasi. «Era un lavoro – ricorda Ianì – che si tramandava di padre in figlio. Ora i padri dicono ai figli: va’ a studiare. La speranza adesso è investire, a patto che anche le istituzioni europee si diano una mossa, sulle professioni più innovative all’interno di questo comparto: il pescaturismo, l’attività di “guardiano del mare”, la ristorazione legata alla pesca e la valorizzazione delle specie dimenticate. Qualche nome? Boghe, cavilloni, tremore, sciabole, gattucci, spinarelli, mustelle… Pesci buonissimi che non hanno mercato e che vengono rigettati in mare».

Almeno l’80% dei pescatori italiani lavora all’interno di cooperative, anche se molti ne fanno parte solo per ricevere alcuni servizi, come l’assistenza contabile. Gli altri invece lavorano nell’ambito di altre forme societarie oppure in proprio aprendosi una partita Iva.

«Cooperativa o meno, ogni pescatore in fondo è libero: è questa la bellezza del mestiere. Il trovarsi ogni giorno di fronte all’ignoto, studiare le reti, le correnti, le lune. Diventa una cosa che fa parte di te e ti sconvolge». Parola di Marco Bazzardi, presidente della cooperativa dei pescatori di Noli (Savona), nota anche per la pesca dei cicciarelli, un presidio Slow Food. 

La cooperativa di Bazzardi è formata da 28 persone con età media 50 anni. Tre giovani però ci sono: «Oltre a me, che ho 30 anni, c’è una mia coetanea e un ragazzo di 25. Veniamo tutti più o meno da questo mondo. È difficile che di questi tempi qualche giovane si appassioni al mestiere: è visto come un lavoro faticoso, troppo costoso, lungo da imparare e poco remunerativo. Io stesso, che amo questa professione nonostante guadagni in media 800 euro al mese, mi ci sono trovato: l’odore dei pesci neanche mi piaceva».

Di solito il ricambio generazionale stenta ad arrivare. Eppure a Marina di Carrara, in Toscana, c’è un’esperienza controcorrente: una cooperativa ittica formata da sole donne e per lo più giovani. Il nome è Bio & Mare, è stata fondata nel 2011 e comprende sette “pescatrici”. «La baby del gruppo ha 22 anni e l’età media è al di sotto dei 40», spiega la presidente italo-bulgara Radoslava “Rady” Petrova, 39 anni.

«E c’è di più: tante ragazze – racconta Rady – ci mandano i loro cv, ci chiedono di lavorare. In questa zona, le giovani generazioni sono molto attratte dalla pesca. Certo, solo due di noi escono in mare, che è l’attività allo stesso tempo più faticosa e più affascinante. Ma il mestiere richiede anche tutti gli altri passaggi, dalla cura delle reti alla vendita: e in queste cose, lasciatemelo dire, le donne sono state sempre le più forti».

Il modello di business di Bio & Mare coinvolge tutta la filiera ittica: pesca, distribuzione, produzione gastronomica diretta, vendita al dettaglio sia di pesce fresco che di conserve. «Stiamo anche attrezzando una barca per il pescaturismo», prosegue Radoslava. «La nostra forza però è il fatto di lavorare con i gruppi di acquisto solidale: portiamo pesce in Lombardia, Piemonte, Liguria…».

La società, che collabora con la cooperativa di pesca Maestrale, per ora sta vincendo la sua sfida anche se – precisa la presidente – «la crisi si fa sentire e la gente compra poco». L’obiettivo, più o meno dichiarato, di mostrare l’appeal di questo mestiere in via di estinzione è però raggiunto in pieno: «Non è un lavoro per tutti. Richiede disponibilità, flessibilità negli orari, tenacia. Io, per esempio, ogni mattina mi alzo prestissimo, anche alle 3. Ma mi piace. Sono una a cui piace combattere». 

Twitter: @maudilucchio

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