Un settimana e mezza è passata e Girodiruota si appresta a superare la boa di metà viaggio, un viaggio partito da Napoli, che ha toccato Ischia, ha passato Campania e Lazio ed è entrato in Toscana, in Maremma prima, nel senese poi. Un viaggio che risalirà sino a Brescia, lì dove il 26 maggio il Giro incoronerà il vincitore della sua 96esima edizione e tributerà il giusto applauso ai girini sopravvissuti.
La corsa rosa è già entrata nel vivo. L’Altopiano del Montasio ha applaudito la vittoria di Rigoberto Uran, figlio di una terra, quella colombiana che ha regalato al ciclismo fior fior di scalatori che sono riusciti negli anni a infiammare di passione con le loro azioni le strade del Giro e del Tour. Da Herrera a Parra, i migliori, da Chepe Gonzalez a Buenahora. Tutta genta da salita, ciclisti capaci di lottare per la conquista della maglia a pois e della maglia verde, il simbolo del primato della classifica dei gran premi della montagna nelle due più importanti corse a tappe al mondo. Ora Uran veste la maglia blu, perchè il Giro si è piegato agli sponsor e ha rottamato la maglia verde, quella che inaugurò Binda nel 1933, che portò a casa per sette volte Gino Bartali, che impreziosì le carriere di campioni come Coppi, Bitossi, Taccone, Fuente, Pantani e che ora è del colore della Mediolanum, alla faccia delle proteste che da due anni il popolo del Giro esprime. Proteste che rimangono inascoltate.
Quella che può essere una sciocchezza cromatica è invece uno dei sintomi di quello che sta accadendo in questo Paese, ovvero uno scollamento tra chi decide e chi queste decisioni le subisce. Uno scollamento che si vede anche nel ciclismo, nei bar vuoti di gente e appassionati, nelle parole di cicloamatori che della corsa rosa poco importa che «è meglio uscire in bicicletta piuttosto che guardare il Giro degli sponsor».
Perché se tra alto Lazio e bassa Toscana le biciclette sono una costante, un presenza fissa, siano esse utilizzate da appassionati o gente qualunque, la corsa rosa è la grande assente nei discorsi della gente, nelle chiacchere da bar. Quello che gli organizzatori non hanno capito è che il popolo del ciclismo è un popolo tradizionalista che non è disposto a innovarsi, almeno non in quelli che sono i punti cardine della propria passione.
Ma non è solo questione di tradizione, di abitudini, il punto è un altro. A essere cambiato è il modo di vivere la corsa in quei luoghi dove il ciclismo non è sport culturalmente radicato. Al contrario del calcio, che si diffonde in modo quasi omogeneo per tutto lo stivale, l’amore per i campioni del pedale risente tuttora di alcune storiche barriere che vanno avanti dal primo Novecento. Nella storia d’Italia la diffusione delle due ruote a motrice umana ha avuto una duplice espansione: veloce e diffusa nel nord Italia, lenta e a macchia di leopardo nel centro sud.
Lo dicono i dati della diffusione di biciclette. Nel 1915, prima dell’inizio del conflitto bellico circolavano nella penisola circa 1.270.000 mila cicli, due terzi dei quali al nord. Alla metà degli anni Cinquanta, nel massimo della diffusione della bicicletta in Italia, prima del boom economico che sancì la motorizzazione del nostro Paese e il confino della bici come mezzo di svago, il rapporto tra nord e centro sud era di quattro a uno e il limite divisorio era una linea retta che collegava Siena alle basse Marche.
Questa divisione è stata in questi anni accentuata ancor più dalla scelta degli organizzatori di puntare sullo spettacolo delle cime alpine rispetto a quelle appeniniche, e dalle decisioni di alzare il baricentro del Giro più a settentrione in quanto più seguito. Ciò non ha fatto altro che aumentare la spaccatura tra le due Italie ciclistiche.
Me ne sono accorto io stesso. Me ne sono accorto in meno di 40 chilometri. Il grossetano e il senese sono divisi da qualche erta, ma la distanza a livello ciclistico è abissale. Non a livello di numero di persone in bici, parlo di altro. A cambiare è il rapporto tra Giro e persone. Se infatti il numero di cicloamatori è pressoché lo stesso, il calore nei confronti della corsa rosa cambia. E cambia in relazione al maggior numero di corse effettuate in questa parte di territorio toscano.
Tra i cicloamatori, tra gli appassionati, tra la gente comune il Giro è argomento di discussione, di chiacchera, di condivisione. Il ricordo storico aumenta, i bar non sono vuoti di ciclismo, magari non sono affollati durante la diretta, ma si riempiono in seguito. Chi non c’era, per un motivo o l’altro si aggiorna, chiede, si informa. Poi critica, si lamenta magari, vorrebbe l’azione ad effetto, il colpo da maestro, l’impresa spacca Giro, rivorrebbe il Giro che è stato. Ma ne parla.
Nei luoghi dove le corse in bici sono rimaste negli anni appuntamenti fissi e in quelli nei quali esse si sono fatte attendere e desiderare si è dunque assisitito a una spaccatura netta, soprattutto a livello di fruizione. La convivialità si è persa e la passione si vive più che altro a livello privato, il Giro lascia i bar e si rinchiude in casa, così come le storie, che spariscono. Almeno quelle a pedali.
Le puntate precedenti:
- Oltre mille chilometri in bici, la mia follia da Giro
- Giro d’Italia al Sud, dove la bici è assente
- Prima settimana di Giro, nell’Italia affollata di auto
*Giovanni Battistuzzi, 28 anni, è un giornalista freelance di Conegliano Veneto (Treviso). Dal 4 al 26 maggio sarà in sella alla sua bicicletta per raccontare il Giro d’Italia, da Napoli a Brescia. Lo farà anche per Linkiesta. Lo trovate su www.girodiruota.it