La sfida di un sacerdote: creare lavoro al Rione Sanità

Il don ha raccolto 3 milioni di euro dai

Il Rione Sanità, a Napoli, non è un quartiere qualunque. È “il quartiere”. Quello dov’è nato Totò, ma anche la fonte d’ispirazione di Eduardo De Filippo per tante sue commedie. In queste viuzze “sgarrupate”, al di qua del ponte costruito nell’Ottocento per unire il centro città con la Reggia di Capodimonte, tra chiese barocche, palazzi nobiliari e bassi scavati nel tufo, il legame tra uomini e morte risale indietro di secoli. Non solo per gli omicidi di camorra, che rappresenta ancora un’alternativa di vita per molti giovani e non del rione. Ma soprattutto per le catacombe paleocristiane che sorgono sotto i piedi dei cittadini, quelle di San Gennaro, San Gaudioso e San Severo. Oltre che per il Cimitero delle Fontanelle (’o campusanto), che conserva i resti di chi in passato non poteva permettersi sepoltura e delle vittime della peste e del colera.

Partendo da questo legame simbolico, un sacerdote poco più che 50enne – tutt’altro che un «cattolico da salotto», per usare le parole di Papa Francesco – si è sostituito alle istituzioni locali ed è passato all’azione diretta. Facendo riscoprire la bellezza di quello che per molti era ormai solo un ghetto senza poesia in mano alla criminalità organizzata. Come? Creando impresa, lavoro e occasioni di socialità per i giovani del quartiere. L’artefice di tutto questo – anche se lui con molta umiltà si definisce solo un «testimone» e precisa più volte che di «mestiere» fa il prete «non l’imprenditore» – si chiama Antonio Loffredo.

Don Antonio Loffredo

Cinquantaquattro anni, napoletano anche lui, del quartiere Vicaria, arriva alla chiesa di Santa Maria della Sanità nel 2001, dopo 15 anni trascorsi nel quartiere di Poggio Reale. «Arrivo qui e mi domando: “Che sse poffà?”», racconta. La risposta era solo una. Sfruttare le risorse di quei luoghi: i giovani e le bellezze del quartiere. Nessuno si prendeva cura delle basiliche e delle catacombe del rione. Molti palazzi cadevano a pezzi. Tante case erano fatiscenti. L’antica basilica di San Gennaro Fuori le Mura era ormai diventata un deposito della Asl. Un patrimonio abbandonato a se stesso, simbolo del decadimento anche sociale del rione. La parola d’ordine era: recuperare. «I beni storico-artistici sono un bene comune come l’acqua, che può essere offerta a tutti. Un elemento per la guarigione del cuore», per don Antonio. La risorsa per sfruttare questo patrimonio erano proprio «le persone, dotate di uno spessore umano e di una energia che forse altrove non esiste più».

Don Antonio ha cercato fondi, raccogliendoli tra privati e fondazioni. E poi ha radunato i giovani, spronandoli a organizzarsi in cooperative. «Abbiamo raccolto tre milioni di euro in 7-8 anni di lavoro», dice fiero. «Perché il nostro obiettivo, vedendo che si prospettava la crisi, era quello di creare imprese in grado di autosostenersi, senza contare sulle elargizioni degli enti pubblici».

A sostenere le idee del don è stata soprattutto una onlus, “L’altra Napoli”, «associazione creata da un gruppo di napoletani che, pur vivendo altrove, condivide l’amore per la propria città natale e la volontà di risollevarne le sorti». Anche qui c’è di mezzo la morte. Il padre del fondatore, un manager d’azienda, viene ucciso in una rapina. Da questo lutto nasce l’idea di riunire chi da Napoli era andato via. Obiettivo: far risorgere la città. Tra i soci ci sono economisti, giornalisti, addetti stampa, dirigenti, architetti, ingegneri, professori universitari, che grazie alle proprie professionalità sono riusciti a raccogliere il denaro necessario a finanziare i progetti di riqualificazione urbanistica e artistica del rione. «Abbiamo risistemato le catacombe, una cappella del Seicento, ex case canoniche vincolate, giardini, chiostri, oltre a una piazza coperta del quartiere in cui si incontrano i ragazzi», racconta don Antonio. E poi ancora: «Le chiese, una palestra e un teatro da cui i ragazzi hanno tolto l’acqua con i secchi. Ora è diventato il loro posto, lo hanno creato dal basso e lo custodiscono come un tesoro».

Dalle catacombe, dai vicoli che ogni giorno i ragazzi attraversavano senza curarsene, è nato il lavoro. «Una quarantina di posti», dice don Antonio. Tra guide turistiche, addetti ai lavori di manutenzione, fonici, tecnici, insegnanti di ballo e di teatro. I turisti ora superano finalmente il confine del ponte che a lungo ha tenuto isolato il quartiere, e oltre al Maschio Angioino vanno a visitare le catacombe e le chiese della Sanità curate dalla cooperativa “La Paranza”. «Più trecento per cento di visite».

Non solo. In questi anni negli spazi riqualificati del quartiere è nato uno studio di registrazione, una casa di accoglienza per mamme e bambini (la Casa dei cristallini), un laboratorio artigianale in cui si lavora il ferro (Iron Angels), un bed and breakfast ricavato da un vecchio convento vicino alla basilica di Santa Maria, un laboratorio teatrale («che qui alla Sanità il teatro è di casa»), uno spazio attrezzato per il doposcuola e anche un’orchestra di bambini, la Sanità Ensemble. «Dodici maestri che seguono il modello Abreu», racconta don Antonio, il metodo di educazione musicale pubblica e gratuita per bambini messo a punto in Venezuela da José Antonio Abreu. Con la danza, la musica, il teatro e l’arte si combatte il degrado.

«Grandi serbatoi di umanità», li chiama don Antonio, a sua volta figlio di imprenditore. Che dice: «Con certe qualità si nasce, non ci si inventa». E con queste qualità, lui, che non si dà troppi meriti, è riuscito a produrre beni, servizi. E, soprattutto, lavoro per ragazzi poco più che ventenni. «I più grandi di loro hanno 30 anni», dice. Tanto che ora a Napoli si parla di “modello Sanità”. Un modello con cui ora don Loffredo spera di contagiare anche gli altri quartieri “difficili” della città. E dalle sue esperienze ora è venuto fuori pure un libro, Noi del Rione Sanità. La scommessa di un parroco e dei suoi ragazzi, pubblicato qualche giorno fa da Mondadori. 

Ma guai a dire che con le sue azioni “don Anto” ha portato avanti la “lotta” contro la camorra. «Noi curiamo», dice, «non lottiamo contro nessuno. E questa cura può essere vincente». Certo, «c’è ancora molto da fare: il mio modello è il paradiso». 

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