In che modo può far capolino l’inflazione? Intanto le strade dell’inflazione sono diverse in un’economia sofisticata, dove emerge sotto condizioni molto particolari, e in un’economia in via di sviluppo, dove emerge facilmente.
L’inflazione è quasi impossibile che si manifesti in un’economia sofisticata. Si entra in recessione quando il reddito corrente è di molto inferiore a quello di piena occupazione. Si ha quindi il rilancio fiscale (opzione non esercitata nell’euro area per ragioni troppo complesse per essere discusse in questa breve nota) e monetario. L’inflazione può palesarsi quando ci si avvicina alla piena occupazione della manodopera e degli impianti. A quel punto però la banca centrale alza i tassi, e perciò ferma la crescita dei prezzi. Inoltre, il bilancio pubblico si aggiusta automaticamente, perché vengono meno le spese per i sussidi di disoccupazione mentre aumentano le entrate fiscali. In conclusione, un Paese con un’economia sofisticata è in grado di evitare sia la recessione profonda sia l’inflazione.
Per un paese in via di sviluppo, invece, è difficile evitare sia la recessione sia l’inflazione. Come economia aperta e poco competitiva, in caso di crisi, si può persino avere la scomparsa improvvisa di interi settori. Inoltre, si hanno crisi bancarie profonde, ed anche ondate di “malgoverno”, come l’espropriazione delle pensioni. Non esiste di conseguenza, come nei Paesi sofisticati, una quota di reddito stabile anche in presenza di crisi. L’inflazione da dove mai viene fuori? Il deficit pubblico degli emergenti nei periodi di crisi è subito espanso attraverso la creazione di moneta e non con l’emissione di obbligazioni, perché i mercati finanziari “evaporano”. La moneta in circolazione perciò aumenta ben oltre quella desiderata. Il prezzo della moneta in termini di beni scende, e perciò si ha inflazione. La politica monetaria può diventare restrittiva, ma manca la conoscenza statistica dell’economia per dire quando e quanto si deve intervenire.
Se in condizioni “normali” è quasi impossibile che in un Paese con un’economia sofisticata, e a differenza di uno in via di sviluppo, possa cadere nell’inflazione, allora dobbiamo cercare di capire se in condizioni “anomale” possa emergere un tasso di inflazione elevato.
Qui definiamo “anomalia” una condizione di grande e insostenibile indebitamento delle imprese e/o delle famiglie. Le imprese e le famiglie per ridurre il debito debbono perciò ridurre i consumi e gli investimenti. Per evitare l’avvitamento la politica monetaria è espansa molto, non solo attraverso il taglio dei tassi praticati alle banche di credito ordinario, ma anche con l’acquisto delle obbligazioni private e del Tesoro sui mercati (il Quantitative Easing). È perciò “monetizzato” parte del debito non acquistato dai mercati, che è acquistato dalla banca centrale. Il ragionamento esposto, nelle condizioni attuali, vale per gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Giappone, ma non per l’euro area, dove i bilanci pubblici tendono al pareggio e la banca centrale non interviene comprando in maniera sistematica le obbligazioni che i privati non desiderano.
Il Quantitative Easing funziona così: una banca centrale acquista titoli che hanno una vita residua lunga. Sono resi liquidi i bilanci delle banche, in quanto principali destinatarie del QE e venditrici di titoli. Nella prima fase (coincidente con la crisi del credito e la stagnazione economica) le banche utilizzano la liquidità incassata depositandola presso la stessa banca centrale a tassi molto bassi (il tasso della banca centrale sulle riserve in eccesso). Nella seconda fase (quando il ciclo del credito dà segni di miglioramento e l’economia comincia a riprendersi) le banche cominciano a ritirare i depositi che hanno presso la banca centrale per finanziare gli impieghi verso le imprese e le famiglie, mentre la banca centrale comincia a ridurre la propria esposizione verso i titoli a lungo termine, vendendola sui mercati. Nella terza fase (quando il ciclo del credito si è pienamente ripreso e l’economia è in crescita) la banche smettono di depositare riserve in eccesso (ossia quelle oltre le obbligatorie) presso la banca centrale, che, a sua volta, riporta il proprio portafoglio titoli verso dimensioni fisiologiche.
Dunque anche ragionando con delle condizioni “anomale” e non con quelle “normali”, l’inflazione non può far capolino in un Paese con economia sofisticata, a meno (ecco dove potrebbe albergare l’errore) che la banca centrale non alzi i tassi e non venda i titoli che detiene durante o dopo che l’economia si è avvicinata alla piena occupazione. La grande liquidità creata in precedenza, ma non assorbita quando l’offerta è diventata rigida, potrebbe, infatti, spingere al rialzo dei prezzi.
Vero quanto fin qui detto, il problema dei mercati finanziari non è oggi l’inflazione, che, come abbiamo visto, potrebbe diventare significativa solo nel caso di errori gravi della banca centrale nel calcolo della “tempistica” richiesta per uscire da una politica monetaria espansiva per andare verso una restrittiva, ma dalla compressione dei rendimenti delle obbligazioni, che si è intanto prodotta.
I rendimenti delle obbligazioni sovrane a lungo termine – i Treasury Bonds, ma vale con qualche specificazione anche per i Gilts, per non dire dei JGB – hanno, infatti, un rendimento inferiore al due per cento. Un rendimento privo di rischio emittente, perchè alla scadenza questi titoli sono rimborsati. Si ha per contro un rischio tasso, perchè, se i rendimenti salissero, i prezzi dei Tresury già emessi cadrebbero. I rendimenti correnti sono intorno al due per cento, un’anomalia, la media storica dei rendimenti dei Treasury Bonds, infatti, è maggiore del cinque per cento. Perciò, se i rendimenti a lungo termine salissero verso la media storica, i prezzi delle obbligazioni cadrebbero del 30 per cento. I rendimenti delle obbligazioni private a lungo termine di modesta qualità – i cosiddetti “junk” bonds – sono intorno al cinque per cento, esattamente quanto era il rendimento dei Treasury ante crisi, quindi nel 2007. I junk bonds hanno però sia un rischio emittente ed un rischio tasso, e perciò con le quotazioni correnti sono molto pericolosi.
Conclusione per gli Stati Uniti (che vale in parte anche per la Gran Bretagna e il Giappone, ma non per l’euro area): è finito il panico (la borsa è tornata dove era), il deficit pubblico (che, sotto certe condizioni, aiuta la ripresa) genera un debito che costa poco ai contribuenti (grazie al Quantitive Easing, che compra i titoli del Tesoro e rende le cedole), parte dei debiti delle famiglie pesa meno di quanto altrimenti sarebbe accaduto (ossia, se la banca centrale non avesse comprato le obbligazioni con in pancia i mutui ipotecari), e le imprese hanno un costo del capitale compresso (se emettono obbligazioni, si hanno dei rendimenti bassi, se emettono azioni, lo fanno con dei multipli elevati).
Tutto bene allora? No, perchè i mercati finanziari sono corsi “troppo”, schiacciando i rendimenti delle obbligazioni sovrane (dei Paesi supposti virtuosi, come quelli menzionati) e private al punto che questi, prima o poi, non potranno che risalire, generando delle forti perdite per chi le detiene. Gli investitori potrebbero perciò uscire dalle obbligazioni e comprare azioni, come in parte sta già avvenendo, ma le azioni statunitensi non sono a buon mercato, e dunque una forte crescita dei loro prezzi le allontanerebbe dai fondamentali, con ciò producendo una “bolla”. Se così andasse a finire, non avremmo l’inflazione nei mercati reali, quella che tutti hanno in mente, ma una forte crescita dei prezzi nei mercati finanziari. Più precisamente, dopo avere avuto dei prezzi molto alti delle obbligazioni, si passerebbe a dei prezzi molto alti delle azioni.