Una macchina che non gira, che si gonfia a dismisura, che appare impossibile da oliare. La pubblica amministrazione italiana fatica e rende farraginoso tutto il percorso burocratico. Per snellire (e risparmiare) la soluzione più importante è una sola: la digitalizzazione. Bene. Eppure, l’Agenda digitale, per come viene disegnata, andrebbe a incidere nella questione, ma c’è chi è scettico. Ad esempio, per Giorgio De Michelis, ordinario di informatica all’Università Milano-Bicocca, Agenda digitale non va. E perché? «Perché non è una vera agenda». Per come sono messe le cose, «si tratta solo di chiacchiere».
Ma perché? Qual è il problema?
Molto semplice. Che si tratta di un piano programmatico che però non ha un programma. Si comincia a parlare di tutto, ognuno dice la sua, e si finisce con l’includere OpenData e Smart City, cioè cose che non servono davvero. E così, poi, non si fa niente.
Si spieghi meglio.
L’Agenda deve essere una cosa vera. Cioè, contenere i programmi e i progetti per il miglioramento della PA. E soprattutto, come fanno negli Stati Uniti, deve avere, alla fine di ogni voce, una tabellina che spieghi bene, per ogni progetto, chi sono i soggetti coinvolti e una previsione di spesa. Altrimenti non significa nulla, resta lettera morta, inattuabile e inattuata.
E invece come funziona?
Al contrario. Si fanno tanti progetti e annunci, ma il tempo passa e non si mette in piedi nulla. Di questo passo, le decisioni invecchiano di anno in anno e vanno riscritte, cancellando ogni utilità. E dando una cattiva immagine al pubblico, che non si attende nulla di buono dalla Pubblica Amministrazione e non ne vede i miglioramenti. Gli attori coinvolti, intanto, che fanno? Cianciano di cose antitetiche. Agostino Ragosa, dg dell’Agenzia per l’Italia digitale, ad esempio, ha annunciato un piano di spesa di 26 miliardi, senza dire per che cosa servano e quali siano davvero sotto la sua disponibilità. Il problema è che non si può parlare di difficoltà nell’Agenda digitale dimenticando che proprio queste sono l’Agenda digitale.
In che senso?
Che l’Agenda digitale deve prevedere e affrontare proprio i problemi che ne rendono difficile l’attuazione. Facciamo un esempio: ci sono enti che fanno resistenza? I Comuni non sono collaborativi? L’Agenda digitale deve già in sé prevedere di trovarne alcuni disposti a sperimentare e cominciare da lì il progetto pilota. Questo permette di capire la portata, stabilire quanto costa, quanto serve, e quanto può rendere l’introduzione di particolari tecnologie, anche nel tempo.
Ma a chi toccherebbe?
Di sicuro al ministero della Funzione Pubblica. Poi il capo dell’Agenda digitale. I sindaci, dell’Ancitel. Insomma, un comitato. Insieme portare avanti un progetto che abbia fondamenti realistici anche dal punto di vista economico.
Quanto tempo ci vorrebbe?
Almeno sei mesi per disegnarla. Poi, ogni tre mesi, un aggiornamento su cosa sta venendo fatto e a che punto è. Ma visto che siamo in Italia, può anche essere ogni sei mesi. Per farlo non occorre riferirsi, nell’impianto generale, a quello che avviene in Europa. Anche lì – meno, molto meno che in Italia – siamo di fronte a un fallimento. La banda larga, ad esempio, è un affare complicato che crea problemi anche all’estero. Ma noi dovremmo fare comparazioni non in senso generale, ma sulle singole prestazioni.
Ad esempio?
Non so, direi che il passaporto digitale è un buon esempio. Perché, appunto, è stato digitalizzato, ma i tempi sono rimasti uguali. Il motivo? Non sono stati modificati i tempi di attraversamento. Non è un ritardo tecnologico, è un problema burocratico.
Che soluzioni possono esserci?
Il nodo fondamentale è non tenere suddiviso il processo di digitalizzazione dalla riforma dello stato. Se va avanti il federalismo, occorre tenerne conto per creare database uniformati. Adesso, per fare un altro esempio, per compare le sigarette in Lombardia alle macchinette serve il codice fiscale. La tessera sanitaria allora va bene. Ma basta solo andare a Novara che la tessera sanitaria lombarda non funziona più. È una piccola cosa, ma rende bene l’idea di come le autonomie abbiano ingigantito il divario tra le varie parti e reso ancora più necessario una unificazione generale.
Agganciare la digitalizzazione alle riforme statali.
Esatto. È un punto essenziale, e serve che si diano tutti da fare. Ma il problema è che non bastano le intenzioni, servono le competenze. Cioè persone che capiscano di informatica. Come si trovano? Occorre che ci prende decisioni le conosca e le consulti. Io trovo incredibile che in Italia, sia nel settore pubblico che ne privato, c’è una scarsissima conoscenza delle eccellenze, in questo ambito. Perché i politici non conoscono Alfonso Fuggetta [di Cefriel]? O almeno, perché non si rivolgono a lui per avere pareri sulla questione? O a Massimo Banzi, quello di Arduino? Più che l’incapacità amministrativa, c’è una mancanza di comunicazione in un ambito, in Italia, molto poco coltivato. Poi, così facendo, ne consegue l’esito inevitabile: che non si riesca ad attuare l’Agenda.