L’Onu non basta, per la pace serve anche la diplomazia

Oggi la giornata mondiale del peacekeeping. Bilancio di un ventennio

La politica internazionale a volte è come la moda: ci sono momenti in cui una definizione o uno strumento sembrano accendere i riflettori sul ruolo dei governi e degli eserciti, salvo poi scoprire che quel “capo” non lo indossa più nessuno. E allora si volta pagina.

Con la fine della Guerra Fredda, il mondo ha preso un sospiro di sollievo, dopo la lunga apnea del terrore termonuclare. Il pianeta scongelato conobbe qualche conflitto locale, a matrice etnico-religiosa e di solito a bassa intensità. Nella regione dei Grandi Laghi, nei Balcani o a Timor Est sono i Caschi Blu che si interpongono tra le fazioni in lotta e vigilano sul rispetto delle tregue. Così nascono le operazioni di peacekeeping dell’Onu, molto in voga fino a un decennio fa. Negli anni, la bandiera onusiana ha sventolato con alterne fortune, con successi importanti (in Africa) e sconfitte cocenti (il massacro di Srebrenica è forse la pagina più nera per le truppe multinazionali). 

Nel celebrare la giornata del peacekeeping oggi la domanda da fare è: “Serve ancora questo strumento?”. Il mondo è cambiato ancora una volta, drammaticamente, in meno di dieci anni. Lo scenario di sicurezza è diventato asimmetrico e le guerre contemporanee si combattono tra eserciti ed entità non statali, come gruppi terroristici, mafie transnazionali, trafficanti di varia natura. I belligeranti difficilmente sono due eserciti tra cui è necessario stabilire una guerra e presidiare una zona di interposizione. La tecnologia del campo di battaglia, poi, ha sostituito gli uomini, con l’obiettivo di risparmiare denaro e soprattutto vite umane. 

Il nuovo corso è stato chiarissimo negli ultimi mesi, con lo scoppio delle rivolte della cosiddetta “primavera araba”, che oggi assomiglia sempre più a un rigido inverno. Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno condotto da “dietro le quinte” le operazioni militari in Libia, evitando qualsiasi impegno diretto sul terreno. Anche dopo la fine delle ostilità, la Libia non è certo stata più pacifica. Ma a confrontarsi sul terreno non sono le milizie dei filo-gheddafiani e dei ribelli ma le singole tribù interessate a garantirsi una rendita di posizione. In uno scenario del genere è difficile legittimare un intervento dei Caschi Blu. 

Stessa cosa dicasi per la Siria, la più complicata delle transizioni in corso nel mondo arabo. Lì combattono molti gruppi e tutti diversi. I militari fedeli ad Assad sono supportati dalle milizie di Hezbollah e dai pasdaran iraniani; i ribelli sono frammentati in piccoli nuclei, spesso con agende diverse; e nelle maglie larghe di questa rete si infilano movimenti jihadisti che vogliono fare della mezzaluna che va da Damasco a Baghdad il nuovo hub del fondamentalismo. Immaginare un intervento armato in queste condizioni è praticamente impossibile. 

Stesse considerazioni valgono per il Sahel, dove i soldati internazionali si sono mossi per evitare che i jihadisti, reduci soprattutto dalla Libia, avanzassero militarmente sulla capitale del Mali. Ma in quel territorio si incrocia di tutto: trafficanti di uomini, armi e droga, terroristi, reduci dai teatri di guerra. Difficile demarcare una linea rossa per separare i contendenti in armi.

Che futuro avranno quindi le operazioni di peacekeeping? Tutto dipende dal ruolo che i governi vorranno attribuire a queste operazioni, al loro quartier generale dell’Onu e alla gestione delle crisi del futuro. Lo sforzo dev’essere congiunto e venire da più parti.

I governi devono dimostrare di credere ancora nei Caschi Blu e nella loro utilità, sostenendo adeguatamente il sistema Onu nel suo complesso e queste operazioni militari in particolare. Le Nazioni Unite hanno però bisogno di aggiornare il loro ruolo, spingendo maggiormente sulla tecnologia, sviluppando capacità congiunte di prevenzione e di gestione delle crisi, associando allo strumento militare quello diplomatico. Innanzitutto perché le crisi del futuro saranno tutte crisi asimmetriche: dalle guerre cibernetiche ai grandi cambiamenti climatici, dalla sicurezza alimentare alla proliferazione delle armi di distruzione di massa. Gli Stati non si faranno guerra tra di loro ma assieme dovranno affrontare tutte queste minacce.

E poi perché le operazioni di peacekeeping non sono uno strumento assoluto ma hanno comunque bisogno della diplomazia per funzionare. Possono essere il cane da guardia che mette fine alla zuffa. Ma per scongiurare altre risse c’è bisogno che le parti in causa si siedano al tavolo e firmino un accordo. Per fare questo è necessario far cadere il velo di ipocrisia che ancora copre e nasconde dietro l’ambiguità delle definizioni la politica estera. Bisogna indicare con chiarezza chi sono “i buoni” e chi “i cattivi”. I terroristi sono terroristi e basta e non “combattenti in armi”. Le armi di distruzione di massa sono un pericolo mortale per l’umanità e non un “mezzo di difesa”. Solo se si adeguerà lo strumento alla realtà dei tempi, l’Onu e le sue operazioni di peacekeeping non saranno un ferro vecchio di cui liberarsi.