Miei cari figli ecco l’odissea del mio arrivo in Italia

Miei cari figli ecco l’odissea del mio arrivo in Italia

L’odissea del mio esodo.
Miei adorati figli, oggi ho finalmente deciso di raccontarvi il mio viaggio per arrivare in Italia. È venuto il momento di farlo.
Fino alla Repubblica Ceca nessuna avventura particolare. Poi la mattina della partenza ci diamo appuntamento in un bar. Da subito comincio ad avere brutti presentimenti, pensieri orribili, quasi inverosimili. Cosa c’entra se sei nata sotto lo stesso segno zodiacale di tuo padre? Proprio nello stesso giorno! Credi di avere il suo stesso destino? Questo confine lo attraversano centinaia di persone, perché solo tu dovresti avere dei problemi? Perché, Dio, mi trasmetti questi pensieri? Sono a metà strada. Non è rimasto molto e presto arriverò. Scaccia i pensieri neri! Gustati il caffè! Guardati attorno! Ti stai avvicinando a un altro mondo!

Allungo la mano per prendere il caffè e sento il corpo che trema: ho paura e una sensazione inspiegabile mi assale. Mi dico: «Sei forte e ci riuscirai». Provo a bere un sorso di caffè, ma non mi aiuta per niente, anzi lo stomaco si ribella. Mi alzo e corro in bagno. Allo specchio mi vedo pallida, mi avvicino al lavandino e mi bagno la faccia con l’acqua fredda.

Non voglio pensare a vostro nonno, che quando aveva esattamente la mia età finí in prigione. Erano altri tempi, e le autorità non dimenticarono mai che lui era un kulak, uno che teneva la terra in pugno, e per questo cercarono sempre di mettergli il bastone tra le ruote. Andò in prigione perché a quell’epoca chi voleva fare l’imprenditore era perseguitato dallo stato. Cosa faceva di male? Costruiva le tegole per coprire le case… E per lui è finita con la deportazione e l’esilio in Siberia.

Quando torno al tavolo siamo già pronti a partire. Sei donne in due macchine. Victor, la nostra guida, ci dice di uscire dalla porta laterale che dà sul parco, prendere il sentiero e sgattaiolare una alla volta attraverso le macerie. Là troveremo le due automobili.
Io sono con Viorica e Marcela. Restiamo mute. Il conducente, un ragazzo ceco dall’aria esperta, cerca di farci coraggio. Superiamo Praga, attraversiamo un’altra città, e poi imbocchiamo una specie di autostrada. Passa un po’ di tempo che sembra un’eternità, e intanto guardo fuori dal finestrino: la foresta si estende all’infinito e ho la sensazione di essere al riparo dai guai. Spero di non scendere mai, lí dentro mi sento al sicuro. E invece, ecco che l’auto frena bruscamente e il ragazzo ci ordina di entrare in una casa poco distante. Fuori comincia a cadere una pioggia fitta ma stranamente silenziosa, che ci segue come un’eco lontana. Corriamo verso la casa, cercando di fare meno rumore possibile. Qua ci aspetta un’altra guida: un ragazzo che sembra piú russo che ceco e che ci dice di seguirlo. Nella stanza accanto ci sono altre tre donne, dobbiamo proseguire con loro. Usciamo in fila indiana, camminando per il bosco. Con un ragazzo davanti e uno dietro seguiamo gli ordini: correre, camminare velocemente, nascondersi… E poi da capo: correre, camminare e nascondersi. Velocemente. Dopo piú di due ore di marcia Viorica smette di camminare, poi si ferma anche Marcela. Dobbiamo aspettare le altre donne, e le nuove istruzioni. A un certo punto le guide si allontanano: – Torniamo tra cinque minuti, – ci dicono. Cosa significa? Possiamo soltanto fare supposizioni. Una donna tenta di rassicurarci, lei ha già attraversato il bosco due anni fa. Parliamo piano, sforzandoci di rimanere calme, ma i cinque minuti sono passati da un po’. E se ci avessero abbandonato qui in mezzo alla foresta? L’attesa diventa sempre piú lunga. Cerchiamo riparo ai piedi di un albero, come se lí fossimo protette.

Ad un tratto sento delle voci, sono le nostre guide. Dobbiamo proseguire tre alla volta. Tra le prime tre c’è anche Liudmila. Rimaniamo di nuovo sole e ci nascondiamo come prima, ai piedi di un albero, in attesa.
Nessuna di noi ha un orologio, ma secondo i nostri calcoli è quasi mezzanotte. Stiamo sedute in silenzio, con le orecchie puntate in alto come antenne di insetti, attente a ogni fruscio. Quando le guide ricompaiono una di loro tiene il cellulare all’orecchio, probabilmente per ascoltare le indicazioni. Improvvisamente allungano il passo, agitati. A gesti e bisbigli una delle guide ci ordina di correre in direzioni diverse. Io devo prendere una salita.
In pochi secondi ci separiamo, ogni gruppetto con la sua guida. Sono l’ultima e nella fretta inciampo e scivolo. Allungo la mano per cercare qualcosa a cui aggrapparmi. Un ramo. Mi tengo stretta e provo a gattonare, come per scalare una roccia. Le forze mi abbandonano, la notte è densa e scura. Sono cosciente ma stordita. All’improvviso sento la voce di Viorica: – Dammi la mano.

Arrivate in cima ci fermiamo di nuovo: – Siete circa a dieci metri dal confine con la Germania. Ora dovete arrangiarvi da sole. Appena vedrete un ampio sentiero io vi lascerò: voi proseguite finché incontrate tre pilastri di cemento, a quel punto li oltrepassate. Quello è il passaggio. Non perdete tempo. Sull’altro lato vedrete una strada. Lí inizia la Germania. Girate subito a destra, non lontano vi aspetta una macchina.
Non riesco a credere che la frontiera tra Repubblica ceca e Germania sia contrassegnata solo da tre pilastri. Noi scivoliamo attraverso i pilastri, giriamo a destra, ed ecco la macchina parcheggiata. Senza dire una parola, l’autista accelera forte.

Finalmente respiriamo, sedute comodamente e con gli occhi fissi sulla strada. Ma dopo un attimo compare un fuoristrada scuro con una gigantesca antenna sul tettino. L’autista accelera ancora. Passa qualche minuto e il fuoristrada ci illumina da dietro con fari potenti. Scendono due uomini in uniforme militare, parlano in tedesco. Il nostro autista esce subito con i documenti in mano, seguito dall’uomo che gli siede a fianco. Dalla conversazione capiamo che le cose si mettono male.
Viorica punta gli occhi sul cellulare tra i sedili anteriori e allunga la mano.
Con tutti i guai in cui siamo mi viene da ridere: – A cosa ti serve il cellulare? Vuoi chiamare la polizia stradale di Glodeni? – Lei ritira la mano e mi chiede: – Che facciamo?

– Siamo in trappola, – le rispondo. – Ascoltatemi attentamente. Quando ci chiederanno come siamo arrivate qui, diciamo che abbiamo pagato un’agenzia turistica di Chişinău. Che la cerchino se hanno voglia. Non dobbiamo dire il nome di chi ci ha aiutato. E poi soprattutto non fate il nome di Victor, la prima guida. Uno dei tedeschi apre la portiera e ci chiede i passaporti. Ammutoliamo e ci stringiamo nelle spalle, senza dire una parola. Abbiamo capito cosa vuole, ma come possiamo mostrare i passaporti se abbiamo solo il visto per la Repubblica ceca? Appena si accorgono che non siamo tedesche, le guardie di frontiera si girano verso il conducente, e in pochi istanti lui e l’altro sono con le manette ai polsi.

Una delle guardie si occupa del conducente, l’altra parla al telefono. Quando finisce si avvicina a noi e ci richiede i passaporti, facendoci segno di scendere. Usciamo senza borse, ma dai suoi gesti capisco che dobbiamo prendere tutto. Impossibile evitarlo. Ognuna di noi mostra il proprio documento. Continuano a parlarci, dal tono sembra che ci stiano dando degli ordini, ma quali? Nel dubbio alziamo le mani. Appena ci arrendiamo si calmano.
Ci riprendono piú volte quando parliamo tra di noi, fino a che non osiamo piú aprire bocca. Nel buio della notte, illuminata dai fari delle auto, ancora una volta abbiamo di fronte a noi soltanto la foresta. Nevica, i fiocchi soffici si posano sugli alberi spogli. Il paesaggio incantevole mi dà una piccola speranza e mi fa dimenticare per un istante quello che sta succedendo. Appena le mani mi si intorpidiscono torno alla realtà. Mi sforzo di tenerle in alto, mi lascio cadere con tutto il peso del corpo prima su una gamba, poi sull’altra. Con la schiena rivolta verso la strada, sento il rumore di un’automobile, uno stridio di freni, e poi un’altra macchina che arriva. Una delle guardie ci si avvicina e sfiora la mano di Marcela. Possiamo abbassare le mani. Un’altra le afferra il gomito, portandola verso l’auto e facendoci segno di seguirla. E poi di nuovo: – Hände hoch –. Mani in alto.

Una delle guardie ha qualcosa di luccicante in mano, ma io non riesco a capire cosa sia. Quando la seconda guardia di frontiera mi si avvicina io allungo istintivamente le mani tremanti, e lo guardo mentre fissa le manette ai miei polsi. Impassibile, penso che è piú comodo stare con le mani legate che con le braccia alzate.
Rimane libera solo Viorica, che ci guarda con compassione, non sapendo ancora bene quando toccherà a lei. I tedeschi discutono tra loro, dopodiché uno mi libera una mano e mette la mezza manetta al polso di Viorica. Poi ci fanno segno di salire sul fuoristrada. Marcela entra per prima, e nonostante sia già in manette le legano le mani a una barra fissata al soffitto dell’auto. Quando entro e vedo Marcela con le mani bloccate in alto sento le lacrime scendere. Marcela viola il divieto: – Beate voi che siete legate insieme! – Scoppiamo a ridere, con la mano appesa sopra la testa, mentre con l’altra ci asciughiamo le lacrime. È un momento di follia, uno di quei momenti in cui il cervello non controlla piú i movimenti e le emozioni, e passa da un estremo all’altro.
Una rete di quelle che si usano per gli animali ci separa dai sedili davanti. Quando i nostri carcerieri sentono le parole di Marcela: «Qua non si piange, si eseguono semplicemente gli ordini», ci dicono di stare zitte.

Cari ragazzi miei, non so se riuscite a immaginarvi il quadro, ma voglio raccontarvi lo stesso i momenti che ho vissuto.
La vettura rallenta e vedo un edificio a tre piani e delle guardie di frontiera; alcune di loro tengono dei cani alla catena. Quando scendo dalla macchina sento decine di sguardi puntati su di noi. Non ho il coraggio di alzare gli occhi, mi sento umiliata, ma sono indifferente a tutto, eseguo gli ordini come un automa.
Nel seminterrato del palazzo quattro tedesche ci aspettano, due donne vestite in abiti civili con guanti usa e getta alle mani, e due in divisa.
Per prima cosa ci allineano, liberandoci dalle manette. Fisso il pavimento in attesa di ciò che accadrà. Vedo gli stivali infangati di Viorica, poi osservo a lungo i miei. E poi quelli di Marcela. «Facciamo schifo, bisogna essere ciechi a non capire che abbiamo attraversato la foresta». Le tedesche in abito civile controllano le borse, quelle in divisa ci fanno spogliare. Indumento dopo indumento, siamo nude fino alla pelle. Mi ordinano di togliere gli orecchini e la catena dal collo, io mi oppongo mostrando l’immagine di Gesú Cristo sul ciondolo, poi lo copro col palmo della mano, scuotendo la testa in segno di rifiuto. Voglio convincerla a lasciarmi l’unico ricordo che ancora ho di casa mia. Lei mi fissa, poi mi dà una bustina di carta dove posso mettere i miei oggetti personali. Adesso anche le guardie in divisa perquisiscono le borse. Sotto il rivestimento del fondo rigido della mia sono nascosti i nostri pochi soldi. La guardia ci chiede a chi appartiene una delle borse. È quella di Viorica, le fanno segno di avvicinarsi al loro tavolo. Noi restiamo ai nostri posti, guardiamo Viorica che cammina verso di loro nuda con gli stivali infangati, ci viene da ridere, ma anche da piangere… Le requisiscono una fialetta di sale di potassio. Per convincerli che non è altro che un disinfettante Viorica si bagna un dito con la saliva e ne scioglie un po’ sfregandolo tra le dita. Ma la
fialetta viene sequestrata lo stesso. Senza manette e senza borse ci rivestiamo e saliamo le scale seguite dalle guardie. Alla fine di un lungo corridoio escono da una stanza due uomini con un’altra divisa. Ci fanno cenno di entrare: siamo in una prigione temporanea.

© 2013 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

* Lilia Bicec (clicca qui per il profilo completo)

Miei cari figli, vi scrivo, 2013, Einaudi, pp.192, € 16
Disponibile anche in ebook a € 9,99

Può una madre abbandonare i figli ed emigrare, sola, in un Paese straniero?
Necessità, disperazione, fuga dalla violenza, desiderio di aiutare la famiglia: motivi come questi hanno costretto migliaia di donne a lasciare il proprio paese e prendere la via dell’Occidente. Questa è la storia vera di una di loro. È la storia del tentativo di piantare le proprie radici in una nuova terra, a volte dura e ostile. È la storia della tenacia della vita e di una nostalgia che è insieme desiderio. Una storia raccontata ai figli lontani per sentirli crescere, per sentirli ridere o piangere. Perché, a volte, solo scrivere la vita può curare la solitudine.

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