Innanzitutto, chiariamo in modo inequivocabile che l’Italia di Monti ha senz’altro fatto i compiti a casa. Almeno su questo dobbiamo essere tutti d’accordo. Da Natale 2011, il nostro Paese ha intrapreso una coraggiosa azione di consolidamento dei suoi conti pubblici e di riforme strutturali di lungo periodo, che hanno nel provvedimento sulle pensioni l’esempio più generalmente apprezzato. Tali misure hanno permesso all’Italia di tenere sotto controllo la spesa corrente, raggiungendo nel 2012 un avanzo primario al 2,3% del Pil (la Germania è all’1,1%, mentre Francia e UK hanno un disavanzo rispettivamente del 2,1% e del 5,1%). Chiaramente, la forte riduzione complessiva del Prodotto Interno Lordo, registrata a partire dal 2008, si è riflessa in un aumento del rapporto tra debito pubblico e Pil (127% nel 2012), nel valutare il quale bisogna però tenere conto che molti degli effetti delle misure attuate per il contenimento del debito manifesteranno i propri benefici non prima di qualche anno. Troviamo peraltro corretto dibattere della giusta proporzione di alcune misure adottate, soprattutto se ci riferiamo alla scelta di non accompagnare l’appesantimento fiscale sulla ricchezza improduttiva (prima dell’Imu, la meno tassata d’Europa) con un parallelo alleggerimento su quella produttiva (le nostre aziende sono tuttora le più tartassate d’Europa!).
Le politiche nazionali non avranno tuttavia alcuna efficacia se non inserite in un contesto di accelerazione significativa del processo di integrazione europea, che contemperi sia misure di breve che di mediolungo periodo: lo sforzo dell’Italia, così come degli altri paesi europei caratterizzati da un elevato indebitamento, non potrà infatti portare a una ripresa stabile e duratura se non nella prospettiva di una soluzione complessiva della crisi dell’euro, da un lato; e di una nuova architettura istituzionale dell’Unione Europea, dall’altro. Il rischio è altrimenti che l’Europa e l’euro siano percepiti solo come fonte di sacrifici e non come veicolo di pace e di prosperità, come invece dovrebbe essere ed è stato in passato: basti pensare ai benefici che i cittadini e le imprese europee hanno ricevuto dall’abolizione delle frontiere e delle dogane e, con l’introduzione dell’euro, dall’eliminazione del rischio di cambio. I singoli paesi europei stanno peraltro reagendo all’ormai quinquennale crisi economica e finanziaria internazionale in maniera molto diversa, anche a livello di zona euro: non è sostenibile nel lungo periodo un’unione monetaria costituita da economie con un andamento così divergente, in assenza di meccanismi fiscali che negli stati unitari, anche federali, tendono a riequilibrare eventuali shock asimmetrici che dovessero colpire le economie regionali.
In effetti, è paradossale che un paese in difficoltà economica e finanziaria come l’Italia (previsioni del Pil per il 2013 a meno 1,5%) risulti essere contributore netto del bilancio europeo, in quanto i criteri di ripartizione degli oneri tra i paesi dell’Unione non tengono conto del ciclo economico. Se dal lato della politica monetaria, l’Unione, attraverso la Bce, sembra aver utilizzato gran parte delle armi disponibili, anche non convenzionali, per difendere l’euro dal rischio di breakup, dal lato della condivisione delle politiche economiche e fiscali e dell’armonizzazione regolamentare c’è ancora molta strada da fare. L’avvio della cosiddetta Unione Bancaria, che prevede una supervisione bancaria centralizzata in capo alla Bce, è sicuramente un buon inizio. Ma prima o poi si dovrà affrontare più coraggiosamente la questione relativa alla necessità di un coordinamento tra le politiche fiscali nei singoli paesi e della predisposizione di meccanismi di ammortizzazione fiscale paneuropei che tengano conto della situazione economica e finanziaria congiunturale degli Stati membri, al fine di evitare che tutti i costi dell’aggiustamento ricadano sui Governi debitori. Ricordiamo che buona parte del debito dei paesi periferici in difficoltà è detenuto dalle istituzioni finanziarie dei paesi “forti”, che forse avrebbero dovuto almeno monitorare più attentamente i rischi che stavano assumendosi.
Nel nuovo scenario postelettorale, l’ondata grillina può contribuire a ripristinare in Italia la fiducia tra classe politica e opinione pubblica, obiettivo la cui importanza non va sottovalutata; ma per superare la crisi, l’unica strada percorribile è quella di un decisivo passo in avanti dell’architettura istituzionale dell’Unione Economica e Monetaria, verso un’autentica integrazione economica, fiscale e politica. L’euro, nonostante la crisi, rimane l’unica valuta di riserva realmente alternativa al dollaro e un suo collasso finirebbe per penalizzare tutti i paesi europei, anche quelli che attualmente godono di una relativa prosperità economica. Italia e Francia, ma anche Regno Unito e Germania, fra una generazione non sarebbero più nel G20, se non inserite in un’Unione Europea Federale, senza la quale saremmo politicamente e culturalmente marginalizzati se non addirittura spazzati via.
Articolo tratto, per gentile concessione dell’editore, dal numero di maggio della rivista East (Ultimo Spettacolo)
*Diplomatico, editore di East e vice presidente di Unicredit; già ministro degli Affari Esteri