Spopola su tutti i giornali la lettera scritta da Angelina Jolie sul New York Times in cui racconta la sua scelta medica: una doppia mastectomia preventiva. L’attrice si è sottoposta a un’operazione chirurgica invasiva in cui le sono stati asportati entrambi i seni, in modo da ridurre praticamente a zero il rischio di sviluppare un tumore. «Le possibilità di ammalarmi di tumore al seno sono scese dall’87% antecedente l’operazione, al 5% attuale» spiega la Jolie che racconta di aver preso questa decisione dopo aver fatto un test genetico in cui risultava portatrice di un gene “difettoso”, il Brca1, associato allo sviluppo di tumore al seno e alle ovaie. E in seguito all’esperienza della madre, morta all’età di 56 anni dopo aver lottato per un decennio contro il cancro. Ne scrive, continua l’attrice, perché spera che la sua storia possa essere d’aiuto per altre donne. Ma ci sono altre vie preventive prima di arrivare a fare una mastectomia? E i test genetici, che danno indicazioni sulle malattie che potremmo sviluppare, sono eticamente accettabili?
Ne abbiamo parlato con Virgilio Sacchini, chirurgo e oncologo del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York specializzato nel trattamento del tumore al seno e Giovanni Boniolo, direttore del dottorato di ricerca in Scienze della vita ed etica presso la Scuola europea di medicina molecolare di IFOM.
Dottor Sacchini, Angelina Jolie si è sottoposta a una doppia mastectomia preventiva perché la madre è morta di tumore e lei ha un gene difettoso, il Brca1. Ha fatto bene o poteva evitare un’operazione così invasiva come la mastectomia?
Ogni donna ha una percezione del rischio diversa, ma considerando l’alto rischio che Angelina aveva per la sua mutazione, l’intervento è stato molto razionale e non esagerato. Probabilmente per Angelina Jolie, come per tutte le donne nella stessa situazione, la decisione sarà stata difficile e travagliata, e solo dopo una valutazione di rischi e benefici, in cui in genere si coinvolgono anche i familiari, avrà deciso di sottoporsi a prevenzione chirurgica. Non è escluso che nel percorso che l’ha portata a prendere questa decisione sia stata affiancata anche da uno psicologo – come spesso accade qui negli Stati Uniti – per capire le reali aspettative della paziente e la possibile reazione psicologica nel caso di complicanze, che benché rare, possono sempre verificarsi per interventi di questo genere.
Chi possiede questo gene difettoso, il Brca1, è davvero destinato ad avere un tumore o lo sviluppo della malattia dipende anche da altri fattori?
Due geni per ora conosciuti sono in grado di aumentare il rischio di tumore mammario: il BRCA1 sul cromosoma 17 e il BRCA2 sul cromosoma 13. Questi geni sintetizzano proteine in grado di riparare il Dna danneggiato. Se questi geni non funzionano come dovrebbero e viene a mancare riparazione del Dna, la cellula muta e diventa cancerogena. La probabilità descritta di sviluppare un tumore mammario in donne portatrici di questo gene mutato oscilla dal 40 all’85% e dal 40 al 60% per quello ovarico. Questa variazione probabilmente dipende dalla caratteristica della mutazione (ne esistono almeno 200) ma non sappiamo quale specifica mutazione dia maggiori rischi. Probabilmente esistono anche fattori ambientali che non conosciamo che possono modificare questo rischio. Nella mutazione Brca1 i tumori che insorgono sono molto aggressivi, spesso “triple negative”. Non esprimono cioè recettori ormonali (o Her2) e questo li rende meno curabili perché non rispondono a terapie farmacologiche a base per esempio di Tamoxifen, inibitori delle aromatasi o Herceptin. Un tumore di questo tipo, anche se molto piccolo, di appena 5 millimetri per esempio, che è il limite di risoluzione della risonanza magnetica, richiede dai 4 ai 6 mesi di chemioterapia ed è un pericolo per la vita nonostante sia a un primo stadio.
Non è un po’ estremo fare un test genetico e poi prevenire tutte le possibili malattie che potrebbero insorgere? Che non è detto poi si sviluppino realmente. Non si rischia di eccedere nell’altro senso e fare operazioni/cure inutili?
La vita è fatta di rischi e si può essere più o meno fatalisti. Si può decidere di correre a 200 kilometri l’ora e rischiare la vita o fumare 20 sigarette al giorno e rischiare un tumore polmonare letale. Ognuno è padrone della propria vita e può deciderne di conseguenza purché non crei danno ad altri. Una donna che sa di avere una familiarità per tumore mammario dovrebbe fare il test genetico per valutare il proprio rischio e decidere di conseguenza. D’altronde avere un rischio di carcinoma mammario aggressivo al 40-85%, è un fattore determinante che può limitare la spettanza di vita. Inoltre va considerato che con gli interventi di ricostruzione plastica che si effettuano oggi giorno questo tipo di prevenzione chirurgica ha un impatto minimo sulla qualità della vita di una donna che decide di effettuare l’intervento.
Qual è a seconda delle età, il percorso di prevenzione consigliato?
La medicina sta diventando sempre più personalizzata e le vecchie linee guida e i protocolli stanno perdendo un po’ di validità. Abbiamo a disposizione sempre più parametri genetici e non solo per valutare il rischio di ammalarsi e anche di decidere la cura migliore quando ci ammaliamo. In questo senso il percorso più importante è la valutazione del rischio fatta dallo specialista e un percorso di controlli ed esami diversi per ogni persona, a seconda della sua storia e in base a diversi fattori. Certamente ci devono essere delle linee guida generali di strategia politica, sociale ed economica della salute pubblica da seguire, ma nel contempo l’individualizzazione del paziente non deve essere secondaria e tralasciata. In generale se esiste una familiarità importante per tumore mammario o ovarico (con mamma, sorella, nonna con tumore mammario o ovarico prima della menopausa) la donna dovrebbe essere sottoposta a un esame genetico. E se questo dovesse risultare positivo (nel senso che presenta geni mutati correlati al tumore) dovrebbe cominciare subito lo screening con risonanza magnetica annuale, esame molto più preciso della mammografia. Lo screening poi, si deve iniziare il più presto possibile, anche a 20 anni, perché non è raro vedere tumori giovanili in donne portatrici di questa mutazione. La mammografia invece andrebbe fatta dopo i 35 anni, ma la maggior parte dei tumori sfuggono alla diagnosi con la sola mammografia ed eco, perché appunto non precisa come la risonanza.
Secondo lei in Italia, e in generale, si fa abbastanza per la prevenzione dei tumori? Si potrebbe fare di più? Non tutte le visite sono gratuite.
Non c’è dubbio che si dovrebbe fare di più soprattutto nel tempo dedicato alla donna quando fa una visita senologica. Spesso la prima visita è liquidata in 10-15 minuti senza un’anamnesi dettagliata e si riduce a una palpazione veloce del seno. È molto importante raccogliere tutti i dati di familiarità della donna e anche il background etnico. Per esempio pazienti discendenti di ebrei ashkenaziti (in Italia ce ne sono più di quanto pensiamo) hanno un alto rischio di avere questa mutazione anche senza familiarità, ma solo per motivi genetici. Ci sono dei sistemi computerizzati che possono predire il rischio di questa mutazione e decidere l’indicazione per il test genetico; e sistemi di predizione del rischio (modello di Gail) per verificare le possibilità che una donna ha di ammalarsi di tumore mammario senza o con familiarità. Purtroppo in Italia non esiste abbastanza sensibilità per la genetica e anche l’esecuzione del test è spesso difficile da eseguire e richiede tempi lunghissimi. La base genetica del tumore mammario non va affatto sottovalutata considerando che almeno il 5% delle 30.000 donne che ogni anno si ammalano di tumore mammario hanno questo gene (circa 1500 donne). Sono quelle più giovani, nelle quali il tumore è prevenibile e che potrebbero evitare trattamenti aggressivi e spesso di morire di tumore mammario o ovarico. Ogni donna naturalmente può scegliere del proprio futuro, ma penso che il nostro dovere come medici e scienziati è di mettere a disposizione della società il massimo delle conoscenze scientifiche personalizzandole per ogni paziente. Chi ha paura dell’isteria popolare, dell’angoscia che la comunicazione di un rischio può avere sulla donna, non sa quanto le donne possano essere determinate, lucide e responsabili nel decidere il proprio futuro.
Dottor Boniolo, ci sono dei dubbi etici nei confronti dell’utilizzo di questi test genetici?
In realtà oggi esiste il cosiddetto “diritto di sapere”, per cui ognuno ha il diritto di chiedere che gli siano fatti questi test. Il problema è che quando parliamo di test come quello effettuato da Angelina Jolie, che riscontrano mutazioni genetiche riconducibili a patologie anche gravi, il paziente poi è posto nella posizione di dover fare della scelte importanti, che hanno conseguenze non trascurabili. La prima cosa che si fa quando si chiede un test di questo tipo è accompagnare il paziente con un counseling pre-test, in cui gli vengono illustrate le alternative cui andrà incontro se il test è positivo. E in genere si effettua solo quando ci sono casi di malattie in famiglia, per via dell’ereditarietà. Stesso procedimento dopo il test. Un esperto, in genere chi si occupa di genetica medica, spiega i risultati al paziente e prospetta le diverse azioni da farsi. Tra cui anche la possibilità di prevenire con l’asportazione dei seni, senza dubbio la più drastica. Ovvio che comporta un enorme quantità di conseguenze, soprattutto per le donne e soprattutto dal punto di vista psicologico e chi fa il counseling dovrebbe ragguagliare il paziente intorno alla conseguenze. Dovrebbe valutare se la persona che decide di farlo è in piena autonomia, è consapevole, informata, lucida ecc. Ma è uno dei modi in cui si esplica l’autonomia delle persone in epoca contemporanea e quindi dal punto di vista etico è perfettamente lecito. La responsabilità della vita è del paziente stesso e se lui opta per questa possibilità ha il diritto di farlo.