«Osserva. Guarda quelle persone al parco. Sembrano ben amalgamate, un insieme coerente. Calzano perfettamente la parte che si sono dati. Ma se pensi a quel che ciascuna di loro ha fatto mezzora fa, un’ora fa, tutto si muove, il quadro non è più lo stesso». Giancarlo Majorino è un poeta indagatore. Mentre fa strada, cordiale, verso lo studio nella sua casa al Giambellino, a Milano, ha già iniziato a studiarti. Ti volge le spalle, ma intanto ascolta i passi, le flessioni della voce, indovina dove si sta posando il tuo sguardo. Cosa veda in te non lo capisci. Senti solo che sta cercando qualcosa.
Classe 1928, 85 anni, Majorino è uno dei nomi influenti della poesia italiana, appartenente a quella che viene chiamata Generazione degli anni Trenta, insieme ad altri due milanesi, Giovanni Raboni e Tiziano Rossi. In città è il direttore della Casa della poesia e insegna Estetica e Scrittura creativa alla Nuova accademia di belle arti. Nella sua vita ha attraversato più lavori, dal rappresentante commerciale, al bookmaker a San Siro, è stato giocatore professionale di bridge. «fatti tutti con la consapevolezza che non sarei stato lì per sempre, che non avevano granché a che fare con me». La sua prima opera di poesa, La capitale del Nord, è nata mentre lavorava in banca, nel 1959. Nello stesso periodo in cui ha preparato il concorso che lo ha fatto diventare professore di Filosofia in un liceo, il lavoro che gli ha lasciato «la libertà di essere poeta».
Si definisce «uno dei pochi poeti sorridenti in circolazione» e mentre descrive i lavori che ha in programma, racconta dell’Enrica, la moglie che lo accompagna da una vita, «che ha sempre paura che restiamo senza soldi». «Ma per fare seriamente questo mestiere bisogna sentirsi liberi dal numero di copie vendute, e dalle case editrici che ti inseguono, ti pressano, ti chiedono di pubblicare quando non sei pronto».
Se c’è una cosa che lo contraddistingue, quella «è la voglia forte di gente, di vissuti» che lo spinge da sempre ad attraversare la città, anche la mattina presto, dopo la sveglia delle 6, a prendere il tram, o la metro, anche senza una meta precisa. «Vado alla spera in Dio. Mi fingo assorto, ma intanto ascolto, osservo, noto il modo in cui la gente si comporta». E quel che vede sono persone incapaci di essere felici. «Le vedo succubi delle cose, angariati da modelli stereotipati».
Una forbice arroventata, le scale sui cui sale e scende il ceto medio abbarbicato sui piccoli poteri raggiunti, la giraffa nella stanza, l’assenza di felicità. Il poeta macina e rumina, assorbe, vive e poi restituisce per immagini. La dittatura dell’ignoranza, l’ultima opera pubblicata nel 2010 è ricca di tutte le esperienze fatte. Ma per scriverla, Majorino ha abbandonato i versi. «È un’opera uscita dall’urgenza di dire, di raccontare il disastro in corso. Volevo che fosse più fruibile». Majorino descrive quel che ancora oggi vede nella sua città. La «sottovalutazione del pensare o ragionare», il dominio del potere e del denaro dove è «netta, benché spesso mascherata» la «divisione tra chi ha, e quindi è, e chi non ha, e quindi non è».
«È una cosa terribile se ci si pensa», afferma. Non è chi ha più sapere e profondità a guidare, ma chi ha più denaro».
Si tratta di immaginare una forbice posta verticalmente, con le due lame aperte: la prima, cioè quella in alto, abitata da chi ha, e quindi è; la seconda, cioè quella in basso, abitata da chi non ha, e quindi non è. La definizione schematica chiarisce una divisione irreparabile, che chi comanda oppre chi orienta nasconde perché ognuno ci caschi (“tutto è possibile”…) come la vincita milionaria, l”incontro sensazionale, eccetera.
A bloccare la consapevolezza di tutto ciò, «un’idea asfittica di felicità», inculcata «da milardi di immagini, da milioni di parole, da replicanti finzioni, da convenzioni scipite». Che trasforma ogni vita in «vitetta», e blocca un ceto medio incastrato a metà tra le due lame di una forbice sempre più arroventata.
«Sono in particolare i cetomedisti a subire un costante lavaggio di cervello; tra i motivi di persuasione, due sono particolarmente efficaci: l’eventualità di far carriera; la paura di precipitare tra i sotto. Non è poco, ecco perché stanno appiccicati al proprio tran tran (peccato perché nella posizione mediana e nella conseguente conoscenza duplice dei caratteri dell’una e dell’altra lama, sarebbero i più adatti a guidare il cambiamento)».
Dal suo studio, il poeta milanese guarda alla situazione politica attuale. Si dice di sinistra, perché «penso la necessità di mutamento», ma vede «partiti che sono partiti dalla gente per sempre». Se si parla di Beppe Grillo, Majorino vede «un comico che urla, che è di nuovo lo slogan, non è la strada per la profondità, non aiuta a capire». E invece «anche la politica ha bisogno di recuperare l’intensità di pensiero».
Uno dei guai più gravi dell’ignoranza … scansando ricognizioni di causalità e attribuzioni di colpe ai vari responsabili, è il diffusissimo permeare quasi tutte le persone su un piano che non si conosce che non si domanda ciò che si pensa, ciò che si desidera (ma un buon beato segue le ordinanze, agenti, e dall’esterno e dal proprio interno, e si nutre di risposte sicure) … Tra le conseguenze, forse la maggiore, per chi viva in luoghi dove non si muore di fame, una carenza fortissima di felicità.
Lo spostamento, reale e metaforico insieme, è lo strumento trovato da Majorino per capire e «resistere». È insieme «fuga» dalla dittature delle immagini e degli stereotipi, e «allenamento all’intensità». Necessario.
«Ci si deve spostare, muoversi su un terreno non previsto, liberamente e autonomamente generando, eventualmente anche ironizzando, qualcosa di impreveduto, qualcosa che disorienti».
Più tardi, nella pasticceria vicino a casa, uno dei tanti luoghi di osservazione quotidiana, Majorino si diverte a indicare il gioco delle parti. La moglie che fa la bella. Il barista che vende la merce. «Facciamo grandi scene per adeguarci ai modelli proposti. Tutti fingono di essere ricercati, di avere sempre cose da fare. E siamo così tanto legati a un «io» che in realtà non esiste, non c’è. Siamo singoli di molti. Frutto delle relazioni che abbiamo avuto, delle persone incontrate». «Eppure le persone si difendono, si chiudono in sé. Sparite le idealità, siamo tutti malsicuri. Non si capisce che è nei rapporti costruiti con le persone che prendiamo forma». Il poeta milanese racconta di averlo imparato bambino dalla madre, «una gran chiacchiarona, diceva sempre che da morta voleva essere sepolta in uno dei tombini di Piazza Duomo, così avrebbe continuato a vedere la gente passare sopra di lei».
E mentre ti accompagna tra le strade della sua quotidianità, Majorino chiede, ti fa domande, ascolta attento le risposte. Con lo sguardo continua a cercare un punto di contatto dentro i tuoi occhi. È così, forse, che il poeta cerca la libertà di essere se stesso.