Né a Bruxelles, né a Berlino, e neppure a Londra – è la Svizzera che il primo ministro cinese Li Keqiang ha scelto per la sua prima visita in Europa. Nella capitale tedesca si è recato subito dopo; nella capitale comunitaria non ci pensa nemmeno, per il momento, a causa della larvata guerra commerciale che si sta combattendo nell’industria delle telecomunicazioni e in quella dei pannelli solari.
Come Li ha spiegato in lungo articolo pubblicato sui principali giornali elvetici, la prima volta ha per i cinesi un significato simbolico importante. Il gesto di far tappa nella patria di Guglielmo Tell ha radici profonde. La Svizzera è stata tra i primi paesi occidentali a instaurare relazioni diplomatiche con la Repubblica popolare di Cina; la prima joint-venture industriale cinese era sino-svizzera; e, soprattutto, la Svizzera ha concesso alla Cina lo status di economia di mercato, mentre l’Unione Europea e gli Stati Uniti tergiversano ancora. Per una nuova leadership cinese ansiosa di mostrare al mondo e ai propri cittadini le sue credenziali riformiste, la Svizzera è sembrata la destinazione ideale.
Se Li ci ha passato due giorni – un tempo considerevole per un leader, François Hollande in Cina ad aprile ha trascorso meno di 24 ore – è anche perché la Svizzera sembra essere meglio preparata che altri paesi a cogliere i frutti della globalizzazione. Nel 2012 le esportazioni svizzere verso la Cina hanno raggiunto 26,3 miliardi di dollari, 2.800 dollari per abitante. L’acquisto della società di orologeria Corum (130 persone e 140 milioni di franchi di fatturato) da parte del gruppo China Haidian è stata ben accolta, anche se è ben poca cosa rispetto a ciò che le multinazionali svizzere realizzano in Cina: a fine 2011 occupavano quasi 191mila persone, in aumento di 80mila unità rispetto al 2007.
Non sorprende che sia ormai prossima la firma del primo accordo di libero scambio tra la Cina e un grande paese occidentale (o quantomeno più grande che l’Islanda, con cui l’accordo è stato firmato in aprile).
La negoziazioni, che iniziarono nel 2010 in occasione di una precedente visita sempre di Li, allora vice-primo ministro, e si sono protratte per nove cicli, sono terminate a inizio maggio. Venerdi scorso a Berna è stato stipulato un memorandum per ridurre i dazi (eliminandoli sull’84% delle esportazioni elvetiche, sul 99,7% di quelle cinesi), migliorare l’accesso reciproco ai mercati e proteggere l’ambiente, i diritti dei lavoratori e la proprietà intellettuale. La firma è prevista per luglio, quando il consigliere federale Johann Schneider-Ammann dovrebbe andare a Pechino. Nel frattempo Doris Leuthard, ministro dei Trasporti, è già arrivata a Pechino, a dimostrazione della frequanza dei contatti politici ad alto livello.
La speranza della Finanzplatz Zürich è che il prossimo grande salto sia l’intensificazione degli scambi e della collaborazione nel settore finanziario, banche ma non soltanto. Ad ascoltare Li a Zurigo venerdì mattina c’erano tutti: Thomas Jordan della Banca nazionale svizzera, Joseph Ackermann di Zurich Insurance, Axel Weber di Ubs, Patrick Odier dell’Association suisse des banquiers (Asb). Che sia la protezione del risparmio o l’eccellenza della gestione, questo è un settore in cui la Svizzera gode di una ben meritata fama e in cui la Cina invece ha difficoltà nel farsi strada.
Da ciò l’interesse di Pechino a rinforzare la cooperazione nella sorveglianza bancaria, nella politica macroeconomica (il franco svizzero è forte ma le autorità non hanno esitato a intervenire per combatterne l’apprezzamento eccessivo) e nello sviluppo del mercato dei capitali. Quando il renminbi diventerà convertibile, gli elvetici sperano di diventare una delle principali piazze off-shore per la negoziazione di strumenti finanziari in valuta cinese. Ubs ha già aperto una filiale di diritto cinese che può eseguire transazioni in valuta locale, mentre Julius Baer propone agli investitori obbligazioni in yuan. L’apertura di banche cinesi a Ginevra, specializzate nella gestione private, è un’altra prospettiva.
Certo non tutto è sempre rosa e fiori. Nel lusso, e in particolare nell’orologeria, ci sono ancora dazi elevati – anche se l’accordo di libero scambio dovrebbe ridurli del 60%. Gli stessi settori soffrono anche a causa della contraffazione e della lotta che le autorità cinesi hanno intentato ai regali ai funzionari, comprensibilmente assimilati alla corruzione. Risultato, nel 2012 le vendite di orologi svizzeri in Cina sono aumentate soltanto dello 0,6%, dopo il balzo in avanti vertiginoso (+49%) dell’anno precedente. Un protocollo settoriale concluso durante la visita istituisce un gruppo quadripartito in cui una volta all’anno attori pubblici e privati delle due controparti discuteranno delle questioni aperte.
Per quanto attiene alla finanza, la Svizzera non è certo sola – anche Londra e Francoforte non nascondono le proprie ambizioni, senza dimenticare Hongkong e Singapore. L’Asb sta preparando un documento per fare meglio conoscere la piazza finanziaria di Zurigo. Per farne una piattaforma di clearing per il renminbi sarebbe poi necessario un accordo tra le banche centrali (e qui i contatti tra la Bank of England e la sua omologa a Pechino sono più avanzati).
A casa, il governo elvetico è stato criticato per non aver fatto abbastanza per esigere da Pechino sforzi concerti sul fronte dei diritti dell’uomo. Schneider-Ammann, in un’intervista allo Schweiz am Sonntag, difende l’operato del Consiglio federale, spiegando che l’accordo contiene riferimenti a questo tema e allo sviluppo sostenibile, “cosa che non vanno da sé”. E del resto sulle colonne della Neue Zürcher Zeitung e del Temps, Li fa riferimento alla necessità di migliorare la situazione dei diritti dell’uomo in Cina. Segnali che la strategia svizzera dei piccoli passi serve.